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Western Digital abbandona gli SSD: SanDisk prende il controllo
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Western Digital abbandona gli SSD: SanDisk prende il controllo
Western Digital esce dal mercato SSD! La divisione SSD (inclusa WD_BLACK) passa a SanDisk. WD si concentrerà sugli HDD per l'intelligenza artificiale.CeoTech
Territori laboratorio per una economia politica “ipermaterialista”
Strategie post-pandemiche contro il neuropotere delle piattaforme
Intervista “pre COVID-19” di S. Simoncini a B. Stiegler
«Il periodo moderno è l’età dello sfruttamento organizzato conseguente e illimitato: dello sfruttamento delle risorse naturali, dello sfruttamento dei cosiddetti popoli primitivi assoggettati, e infine dello sfruttamento sistematico del cittadino», Norbert Wiener, Introduzione alla cibernetica
Questa è una breve premessa che non si propone come una introduzione alla figura e al pensiero di Stiegler. Troppo ardua l’impresa per un non filosofo come me, perché troppo stratificata e ramificata la sua biografia intellettuale, il suo profilo umano e filosofico. Provo soltanto a tracciare l’incipit di alcune possibili piste che facilitino un’esplorazione del paesaggio mentale che si squaderna in questa intervista. Perché diciamolo, è un’intervista a tutto tondo. E diciamo anzitutto, come prima pista possibile, che una caratteristica saliente del suo paesaggio filosofico è la centralità dell’imperativo marxiano, quello delle “Tesi su Feuerbach” secondo cui i filosofi dopo aver “variamente interpretato il mondo” sono chiamati a “trasformarlo”.
L’idea di realizzare questa intervista nasce dopo aver assistito a tre sue recenti conferenze romane, tenute in successione all’Accademia di Francia, al Macro e all’università Roma Tre, le ultime due per iniziativa del collettivo “Red Mirror”. Potrebbe essere una circostanza casuale ma non lo è. Le tre classiche istituzioni culturali dell’Occidente, accademia, museo e università, costituiscono effettivamente la sfera pubblica in cui si dispiega prioritariamente il pensiero di Stiegler. Questa notazione di contesto non è secondaria, e va tenuta presente insieme alla vocazione marxiana alla praxis trasformatrice, e mette in luce una contraddizione su cui varrà la pena soffermarsi.
Il cuore della sua speculazione è simondoniana, cioè tutto muove dalla concezione della tecnica come principio d’individuazione originario per l’uomo. La tecnica non è strumento ma ambiente che definisce in chiave relazionale l’umano, e non esiste un’essenza dell’umano che prescinda dalla tecnica, in ragione di una coevoluzione costante a partire dalla ominizzazione.
Io stesso ho scoperto Stiegler a partire da un suo saggio su Gilbert Simondon, altro filosofo della tecnica francese da cui sono germinati Baudrillard, Deleuze e lo stesso Stiegler.
Eccone un estratto stupefacente:
Oggi, nell’epoca dell’industrializzazione della memoria e di ciò che chiamiamo i media (tanto analogici quanto digitali), l’ambiente associato informatico che diviene lo spazio pubblico mondiale, attraverso i fenomeni di velocità di cattura, di trasmissione, di calcolo e di trattamento (di segnali analogici o digitali), influenza la capacità d’anticipazione stessa dell’uomo in maniera radicale. […] Questa costituisce senza dubbio una trasformazione radicale del politico come tale. In un altro modo, l’ergonomia ‘conviviale’ delle interfacce informatiche tende ugualmente a integrare funzionalmente i comportamenti dell’utilizzatore in una specificazione dinamica del software o del sistema utilizzato. La genesi degli eventi stessi si trova così funzionalizzata dal sistema tecnico-informazionale, in un formidabile complesso trasduttivo”(1). Trasduzione, come spiega lo stesso Stiegler, è la “relazione dinamica che costituisce i termini messi in relazione (i termini non esistono fuori della relazione, e dunque l’uno non può precedere l’altro)”, e ancora, è la “propagazione di un’operazione tra due termini costituiti come tali dall’operazione stessa”.
E’ stata una folgorazione. Nel 1993 qualcuno era in grado di avere questa capacità di analisi proiettiva che sfiorava la preveggenza. Com’era possibile?
In un’epoca in cui la tecnica sta trasformando tutto, e non per il meglio, possiamo dirlo, avere un filosofo a portata di mano capace di cogliere e spiegare la portata di questa trasformazione fin dalle sue origini non è irrilevante. E allora non mi spingo troppo oltre, se non per segnalare alcuni riferimenti concettuali da tenere presenti, e uno spunto critico che occorrerà approfondire su quella che a mio parere è una contraddizione di fondo del suo pensiero.
Prima una questione di stile, di forma inscindibile dal contenuto. Il suo stile speculativo è metaforicamente associabile alle grandi traiettorie concentriche del volo di un rapace. Grandi digressioni circolari che inglobano di tutto in termini di materia grezza intellettuale, ma con una logica geometrica che converge dinamicamente su un punto e lo afferra violentemente. E l’insieme dei punti afferrati disegna una struttura solida, essenziale, quasi scabra.
Ed ecco la struttura. Anzitutto la centralità del processo di “grammatizzazione”, che discretizza, frammenta la materia prima della conoscenza, il linguaggio, consentendo l’apprendimento e il riuso dei saperi trasmessi. Questo processo di grammatizzazione si apre con l’invenzione dell’alfabeto e della scrittura e arriva fino all’informatica. Il problema drammatico che egli descrive è la capacità assunta dall’ambiente informatico, grazie all’intelligenza artificiale delle grandi piattaforme, di grammatizzare e discretizzare gli stessi comportamenti umani, implicando una proletarizzazione materiale e immateriale della società. In che senso?
Le piattaforme demoliscono definitivamente il sistema keynesiano automatizzando e frammentando il lavoro, e sottraggono saperi dai contesti di vita e dalle relazioni umane. Il paradosso spesso raccontato da Stiegler, è che anche l’ex presidente della FED Alan Greespan può essere tecnicamente considerato un proletario quando, dopo il crack del 2008, racconta al Congresso che la responsabilità della catastrofe è da attribuirsi a “the whole apparatus of computerized formalization and automated decision-making”. L’episodio dimostrerebbe che esiste un problema di conoscibilità del sistema che rende tutti in vara misura “alienati”, e quindi in un certo senso proletari.
Se tutti sono diventati proletari significa che nessuno più è proletario nel capitalismo cognitivo?
Meno geometrica e solida appare, a mio modo di vedere, la pars costruens del pensiero stiegleriano, che si sviluppa intorno al problema centrale della ricostruzione del politico in assenza di lotta di classe.
Perché da qui in avanti egli diverge più sensibilmente con l’Italian Theory e in particolare con Toni Negri, con cui ha in ogni caso moltissimi punti in comune a partire dalla condivisa matrice deleuziana.
La proletarizzazione radicale determinata dal capitalismo di piattaforma contraddice e compromette l’idea di un processo spontaneo e necessario che libera e soggettivizza il general intellect da cui il capitalismo cognitivo estrae valore. L’algoritmo e i big data, affermando il paradigma del controllo discretizzante dei comportamenti, demoliscono ogni principio di individuazione e soggettività. Non sfugge neanche il modo di produzione collaborativo dell’open source a questa dinamica. Ma egli va anche oltre, attaccando l’idea del conflitto di classe alle fondamenta, in quanto sostiene che la dialettica è un errore, e che il conflitto è elemento costitutivo della vita come possibile tensione al miglioramento.
Qui tuttavia la contraddizione, perché stando alla sua analisi “destruens” non si dà più questo conflitto costitutivo, nell’asimmetria di potenza determinata dalle piattaforme. La ricostruzione del politico non sembra poter avvenire “dentro” la società, ma sempre a partire da una sua “formazione” prodotta dall’alto, dalla cosiddetta società istituita. Ma se questa società istituita è già in ogni caso compromessa dalle “istituzioni algoritmiche” (non è questa una sua espressione), come si può dare questa “formazione”?
In questa contraddizione subentra il piano del territorio come spazio (sempre ibridato con il digitale), da sottrarre alla dinamica espropriante della spazialità delle piattaforme, e la questione della trasformazione del lavoro svincolato dal reddito ma ricostruito sulla base di un rinnovato sapere territoriale. Qui è il punto a mio parere più interessante e fecondo della pars costruens di Stiegler, nonostante le contraddizioni sul piano politico. E proprio qui mi fermo, per far parlare lui, e per lasciare a voi la scoperta del versante più impervio e inesplorato del suo paesaggio mentale.
Stefano Simoncini
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Signor Stiegler, mi perdoni se faccio una breve premessa di inquadramento al tema generale del capitalismo di piattaforma, su cui vorrei incentrare il nostro confronto a partire da una ricostruzione della sua genesi, per poi procedere a una riflessione su quali siano le possibilità e le traiettorie per un suo superamento.
Il caso Snowden (2013) e quello di Cambridge Analytica (2018) sono le vicende esemplari che hanno mutato la percezione delle nuove tecnologie, minando in parte l’ideologia “digitalista” della Silicon Valley. La loro gravità induce a interrogarsi sul perché il mondo abbia impiegato così tanto a comprendere il lato oscuro della rivoluzione digitale, le gravissime insidie per la democrazia che essa stava covando nel suo seno. Come entrambi sappiamo bene questa nuova dimensione di governo del sociale, le piattaforme digitali, non rappresentano soltanto una minaccia per la democrazia, ma stanno determinando delle trasformazioni radicali nelle strutture stesse dell’individuo e del sociale.
Tra le manipolazioni compiute da Cambridge Analytica vi è quella commissionata dal “falco” neocon John Bolton a sostegno di un intervento militare contro l’Iran. Sembra quasi che, come preconizzato da Baudrillard, grazie alle nuove tecnologie il mondo sia sempre più rappresentazione e simulacro. E questo nella sfera politica. Ma il “behavioral microtargeting” realizzato da Cambridge Analytica si fondava su modelli che gli operatori definiscono “psicografici”, ovvero criteri di classificazione psicosociale messi a punto a partire dalle ricerche del Cambridge Psychometrics Centre della Cambridge University. E questi criteri vengono in ogni caso strutturalmente applicati ai comportamenti quotidiani delle persone. Lei parla di “psicopotere” da molti anni, e sarei curioso di capire meglio in che modo questo concetto si distingua dal biopotere foucaultiano, immaginando che la sua dimensione ecceda la sfera politica e anche quella sociale, per aderire alla vita dell’individuo. Ma constatato tutto questo, una domanda fondamentale è: com’è potuto accadere? Lei ha descritto in tempi non sospetti l’originarietà della tecnica nei processi di individuazione dell’umano e del sociale. Si può descrivere sinteticamente una fenomenologia complessiva di questa relazione nei diversi piani in cui si realizza? In che modo l’ICT dopo aver progressivamente automatizzato la produzione, oggi attraverso social media, cloud computing, gig economy, e-commerce, sta realizzando l’automatizzazione della società in una sorta di “megastruttura” organica, come l’ha definita Benjamin Bratton?
Mi accorgo che in modo del tutto involontario sto già adottando alcune sue categorie interpretative nel farle le domande… Troppo facile forse così, ma la lascio parlare.
Il Web per me non si può più considerare il Web. Lo sostiene anche Tim Berners Lee, il Web è stato distrutto da quelle che noi definiamo le piattaforme. Questo punto secondo me è fondamentale. Il “WWW” era fondato su una libertà editoriale che le piattaforme, gli smart phone e i social media soprattutto hanno distrutto da 10 anni a questa parte. Ma ci torno tra poco…
Per cominciare da Baudrillard, io credo che a partire dagli anni ’70 con Le Système des objets, e poi in Pour une critique de l’économie politique du signe – anche se su quest’opera ho alcune riserve legate a una visione molto ingenua in relazione al concetto di desiderio -, egli abbia identificato molto presto e prima di ogni altro alcune cose molto importanti, tra cui soprattutto la questione degli oggetti, che interpreta a partire da Gilbert Simondon – Baudrillard era un lettore di Simondon, un lettore tradizionalmente marxista, molto più marxista direi di Gilles Deleuze, che cita anche lui Simondon nello stesso periodo ma su basi molto differenti. Credo però che le questioni che Baudrillard solleverà in lavori molto più recenti, tra cui il famoso commento all’11 settembre 2001 sul tema del simulacro(2), siano al tempo stesso giuste e imbarazzanti, nel senso che io non potrei mai farle mie in quella stessa forma, perché ritengo che c’è un momento in cui Baudrillard filosofo e sociologo accademico di grande qualità, molto originale e grande lavoratore, ma anche audace e coraggioso, diventa un saggista più che un ricercatore, e si mette a speculare in forme, diciamo un po’ frettolose… E non dico questo per fargli un processo ma perché dietro queste critiche ci sono poste in gioco molto precise, soprattutto in relazione alla questione della fenomenologia e alla questione della grammatizzazione, un processo che lui non ha mai in alcun modo teorizzato, su cui torneremo tra poco. Con Foucault il problema è simile, con le dovute distinzioni ovviamente – se è vero che Foucault non diventerà mai un saggista perché resterà sempre nel solco di un fortissimo rigore accademico, nella accezione migliore del termine, un rigore che ho sempre ammirato anche quando mi trovo in disaccordo con lui. La difficoltà di Foucault secondo me è legata alla sua relazione problematica con l’antropologia, ma anche con la psicanalisi e la fenomenologia. Inizialmente egli intendeva costruire un nuovo genere di antropologia, sentendosi molto vicino a Binswanger, e quindi a Freud, ed è stato uno dei primi lettori di Heidegger in Francia. Il suo pensiero perciò si sviluppa a partire da questi movimenti, ma tra metà anni ’50 e anni ’60, come Derrida, egli rompe con queste fonti e si confronta con qualcosa di completamente nuovo che si rivela straordinariamente fecondo, e lo porterà a sviluppare negli anni ’70 il concetto di biopotere. Un concetto molto interessante ma che trovo attualmente inadeguato, e quando dico questo mi riferisco più che a Foucault alle imitazioni dei foucaultiani, che continuamente tirano in ballo il concetto di biopotere senza rendersi conto che dagli anni ’70 a oggi ne sono successe parecchie di cose. Foucault stesso, nella sua analisi critica del neoliberismo(3), dice pochissime cose a proposito del marketing. Quando viene intervistato su questo argomento da Michelle Perrot(4), quello che risponde è veramente povero, non è all’altezza dell’argomento di cui sta trattando. A questo proposito, con la definizione di “psicopotere” io intendo la maniera in cui la “grammatizzazione analogica”(5), quella che con Adorno e Horkheimer possiamo definire industria culturale, produce massificazioni per determinare pubblici e comportamenti di massa a servizio del marketing e in funzione della creazione di economie di scala nell’economia industriale neoliberista. Questa è infatti diventata soprattutto un’economia consumista fondata sulla crescita illimitata e a tutti i costi dei consumi, e dunque anche una crescita dei problemi ambientali. Un nesso che nessuno vede, né Foucault, né Deleuze – e anche io non l’ho compreso subito con lucidità, per quanto l’abbia descritto una prima volta in La tecnica e il tempo. In ogni caso per me oggi la questione dello “psicopotere” – di cui ho parlato molto negli anni 2000 – è divenuta una questione di “neuropotere”. Lo “psicopotere” si riferisce all’epoca delle industrie dei programmi audiovisivi, ovvero le industrie culturali che Adorno e Horkheimer avevano anticipato e i situazionisti come Guy Debord e Henri Lefebvre avevano descritto tra gli anni ’50 e ’60. Essendo dei marxisti, e perciò dialettici materialisti che credevano nella potenza del negativo, i situazionisti ritenevano che la finalità delle industrie culturali era quella di alienare le masse dal punto di vista comportamentale per neutralizzarne la potenza negativa.
Questo scenario è poi radicalmente mutato soltanto nel corso degli anni ’90, quando è comparso il World Wide Web appunto, che ha reso possibile una molteplicità di processi di demassificazione nei quali io stesso ho riposto molta fiducia. Non a caso in quel periodo ho assunto la direzione dell’INA(6), quando mi è stata proposta ho accettato proprio perché ero convinto che il WWW avrebbe trasformato le industrie culturali in un vero strumento di costruzione del sapere, uno strumento cognitivo e culturale. E ho continuato a pensarlo, ma purtroppo non ci sono state politiche culturali europee che si siano fatte carico di questa finalità, nonostante il vantaggio molto significativo che aveva in questo settore dell’Europa, su cui torneremo in seguito.
Perché, cosa succede oggi?
Affermo questo perché oggi non è più minimamente il Web che costituisce l’orizzonte della rete, ma sono le piattaforme. Facebook ad esempio non passa per il Web, il Web è eventualmente un punto di accesso per andare su Facebook, ma oggi la maggior parte della gente va su Facebook per cercare informazioni senza utilizzare il Web in quanto tale. E la finalità delle piattaforme come Facebook, Amazon e Google è quella di costituire un sistema di servizi integrati che soppianta il WWW e governa assolutamente tutto. La conseguenza è che hanno prodotto un nuovo modello economico definibile “data-economy”, nel quale le piattaforme guadagnano soldi convertendo tutte le informazioni in dati processabili. L’obiettivo di questi calcoli è vendere audience come all’epoca delle industrie culturali. La grande differenza rispetto al modello delle industrie culturali televisive e radiofoniche è che non viene venduta audience di massa ma comportamenti individualmente controllati. Quello che hai definito “microtargeting” è possibile perché si sono appropriati delle “ritenzioni”, ovvero quello che trattengo nella mia memoria di tutte le attività passate, e delle “protensioni”, cioè le anticipazioni sull’avvenire, quello che vorrei fare ecc. Tutto questo è passato sotto il controllo dei social network e può essere molto facilmente manipolato, per una ragione molto semplice, che è la seguente. I sistemi funzionano a una velocità milioni di volte superiore alla nostra nel trattare i nostri stessi dati. Se ad esempio interagisco con Google o con Amazon, per cercare un articolo o comprare un libro, Google ha dati sui miei comportamenti da più di vent’anni, ed è capace di processare queste informazioni con metodo statistico e calcoli delle probabilità 3 milioni e 100 mila volte più velocemente di me. Un data center infatti funziona a due terzi della velocità della luce nelle sue analisi, mentre il mio sistema nervoso funziona a una velocità di conduzione di 60 m/s. Quindi il sistema va più veloce di me, mi precede e conseguentemente mi prescrive i comportamenti.
A questo proposito, in che senso parla di “discretizzazione”?
Per fare un esempio, Facebook ci sollecita a postare contenuti, messaggi, foto, o suoni, che vengono convertiti in determinati formati di dati e devono essere caricati attraverso quelle che nel mondo della documentazione elettronica si chiamano “maschere di input”, in modalità che sono definite dagli standard di Facebook, Amazon o Google. Ora questi standard sono discretizzati, perché così ci è imposto, anche se non ce ne rendiamo conto, ed è concepito per essere calcolabile, ma questo genera un problema rilevante, perché in linea di principio ciò che determina chi siamo è qualcosa che non è calcolabile, perché noi non possiamo calcolare noi stessi e il nostro inconscio non calcola, ma desidera, che è radicalmente diverso. Divenire un essere sociale significa trasformare un desiderio individuale, che non è calcolabile, in un desiderio condiviso con altri, ad esempio in quanto artisti, o come madri di famiglia, come militanti, come cittadini, un processo che è definibile “transindividuazione”. Le tecnologie di grammatizzazione digitale investono perciò una sfera che chiamo neuropotere perché agiscono direttamente sul nostro cervello, cioè influenzano le ritenzioni psichiche, trasformandole e calcolandole, e in questo modo quello che provocano è una vera distruzione della mia individuazione psichica, ovvero della mia singolarità. Felix Guattari definiva “dividualizzazione” questa dinamica: da individui diventiamo “dividui”. Guattari aveva intuito tutto questo nel 1989, non esisteva ancora il Web, ma lui aveva compreso questo per deduzione, ed è su questa base che Gilles Deleuze ha concepito le società di controllo, a partire dall’intervista con Toni Negri e in seguito nel Poscritto sulle società di controllo. E questo implica non tanto una manipolazione politica, bensì soprattutto una manipolazione commerciale, perché il fine è anzitutto di manipolare i comportamenti nell’orizzonte del mercato, per renderli calcolabili. Ed è un proposito coerente con le teorie neoliberiste che ritengono che soltanto il mercato è razionale perché soltanto il mercato è calcolabile. Ciò tuttavia presupporrebbe che tutti i conservatori facciano calcoli ogni volta che fanno una scelta, che è assolutamente falso. Non fanno alcun calcolo, perché la verità è che sono influenzati da gente che fa dei calcoli, e non è per niente la stessa cosa. Sono condizionati da macchine di calcolo, quelli che chiamiamo algoritmi, perché queste macchine funzionano in tempo reale e su scala planetaria, mediante i big data – parliamo di calcoli parallelizzati capaci di processare immense quantità di dati alla velocità della luce e su scala planetaria. È su questo che s’innesta la manipolazione politica, di cui Cambridge Analytica è la faccia emersa, perché vi è una parte immersa che non si vede, ed è estremamente importante, il cui principale riferimento è Peter Thiel, uno dei primi ad aver concepito questo sistema. Thiel è il fondatore di Paypal, primo investitore di Facebook e consigliere personale di Donald Trump, un liberista di estrema destra. E i veri liberisti sono sempre di estrema destra, perché ritengono che bisogna eliminare la politica. E l’estrema destra è sempre a questo che in qualche modo vuole arrivare, perché ritiene che il popolo è sempre immaturo e pericoloso e bisogna controllarlo con ogni mezzo, ivi compresa la repressione più brutale. Quindi l’altra questione oltre a quella dei big data è quella dei liberisti.
A questo proposito, qual è il suo parere sul rapporto tra l’ascesa della destra e l’uso della rete in Italia?
In Italia questo rapporto è un po’ particolare perché com’è noto sia i 5 stelle sia Matteo Salvini hanno sviluppato una intensa pratica delle reti. Salvini si ispira sicuramente molto a Trump, mentre i 5 stelle si muovono su un piano un po’ differente. Inizialmente nel movimento vi è una forte componente derivata dalla sinistra libertaria, in una situazione generale che in Italia vede l’autorità pubblica totalmente screditata. Queste circostanze hanno indotto a una pratica delle reti piuttosto originale credo.
Torniamo per un momento al “neuropotere” delle piattaforme. Parafrasando uno dei suoi ultimi volumi, si può affermare che esso stia determinando l’automazione della società nel suo insieme?
Sì ma a livello individuale. Anche l’intenzione di Berlusconi è la prescrizione comportamentale, ma a livello di massa, mentre qui sono gli individui ad essere controllati, ed è qualcosa che determina la possibilità di operare manipolazioni politiche molto mirate attraverso conoscenze psichiche simili a quelle utilizzate da Cambridge Analytica. Come ad esempio la psicometria, che studia la possibilità che gli individui si comportino come capre, cioè in modo mimetico. Peter Thiel ha seguito a Stanford i corsi di René Girard, cioè colui che ha teorizzato il desiderio mimetico. E questo è un nuovo stadio della grammatizzazione, che ha come scopo semplicemente quello di far scomparire ogni autorità politica e tutta la società civile per sottomettere quest’ultima a modelli di calcolo comportamentale che permette di controllarla integralmente.
Potrebbe descrivere più dettagliatamente come a suo parere sia avvenuto il passaggio da internet al web e da questo al sistema delle grandi piattaforme? Si tratta di una rivoluzione seguita da una controrivoluzione?
Agli inizi c’è Internet, che si sviluppa alla fine degli anni ’60 negli Usa e diventa uno strumento strategico dell’esercito americano, diciamo scientifico-strategico, perché a un dato momento l’esercito americano apre internet alle università americane con l’obiettivo ovviamente di trarre il massimo vantaggio dalla ricerca scientifica, e il rapporto tra esercito e università negli Usa è una lunga storia molto interessante che andrebbe ricostruita. Quindi dobbiamo considerare che l’internet esiste dalla fine degli anni ’60 e le questioni di cui stiamo parlando sono legate a un processo che comincia negli anni ’90. Perciò mi preme ribadire che il problema non è Internet, perché Internet esiste da molto tempo e non ha generato i processi di cui stiamo parlando. Quando si afferma questo, come ha fatto Fred Turner sostenendo che tutto è cominciato con il consumo di LSD di Steve Jobs e con gli hyppies in California, non è del tutto falso ma è sicuramente una distorsione. È certamente esistito Steve Jobs, c’è stata gente che prendeva la mescalina o l’LSD, come d’altra parte facevo anche io in quel periodo, ma non è tutto questo che costituisce l’origine della rivoluzione digitale. Perché all’origine della rivoluzione digitale c’è il World Wide Web, e prima che esistesse il WWW, Internet non era accessibile al pubblico, anzitutto perché l’esercito americano non dava accesso al pubblico – anche se alla fine degli anni ’80 l’esercito americano ha aperto Internet alle università europee per integrarle in una politica di soft power. Internet non consentiva assolutamente quello che consente il Web, permetteva soltanto di inviarsi dei messaggi, niente di più. Mentre il WWW ha consentito di creare siti, pagine web, ha “editorializzato” la rete. E il web è stato concepito tra 1989 e 1993, quando lavoravo anche io allo sviluppo di sistemi analoghi insieme a ricercatori che erano in contatto diretto con il team di Tim Berners Lee, con cui ho anche lavorato. Il web aveva il principale obiettivo di contrastare il fenomeno che si sta affermando oggi con i social network, cioè proteggere la diversità dei punti di vista – mentre oggi quello che chiamiamo Web non è più minimamente il Web, è la rete delle piattaforme, un sistema concepito con l’obiettivo di standardizzare e unificare i comportamenti. Ed è perciò l’esatto contrario. Ne consegue che non è il Web che determina i problemi di cui stiamo parlando, ma è la sua distruzione. Ora, io ho fondato nel 2005 un’associazione che si chiama “Ars industrialis”, che ha come sottotitolo, che in Francia definiamo “ragione sociale”, “associazione europea per una politica industriale delle tecnologie dello spirito”. Tra le convinzioni fondamentali di Ars industrialis, vi è quella che il Web, come Internet, come i software, come un martello, come la bomba atomica, come le medicine o l’LSD o qualsiasi altra cosa rappresenta un “pharmakon”, e che dunque bisogna avere una politica, e se non ci sarà una politica si arriverà necessariamente a un’alienazione di massa.
Nel precisare cosa intende per pharmakon, può spiegare in modo più articolato quale processualità immagina da un punto di vista politico, e a quale blocco sociale o realtà istituzionale la riferisce?
Il concetto del pharmakon è rivolto principalmente contro un punto di vista che reputo naif, il quale postula che il cosiddetto “capitalismo cognitivo” avrebbe necessariamente generato una rivoluzione del negativo, una potenza del negativo, sulla base di una visione totalmente dissociata dalla realtà e dalla pratica di quello che definiamo capitalismo cognitivo. Io ho diretto tre istituzioni importanti, di cui due dotate di laboratori di sviluppo software, e in particolare uno con 70 ingegneri impegnati nella programmazione, perciò conosco bene come funziona l’industria informatica. La questione centrale del capitalismo cognitivo è capire se esso consente, in un modo di produzione industriale, di disalienare il lavoro o no. Io ho sempre detto che sì, lo permette, ma a condizione che si faccia una vera critica farmacologica. E ritengo che i movimenti che hanno fatto proprie queste prospettive, certo non tutti, ma molti, e in particolare i postoperaisti italiani, molti dei quali sono in Francia oggi, hanno totalmente ignorato l’aspetto farmacologico. Non hanno visto che questo sistema di “grammatizzazione” digitale avrebbe condotto a una iperproletarizzazione degli individui, un fenomeno di cui in Italia ha parlato Antonio Casilli, che definisce questo genere di individuo l’“operaio del click”. Quello che io sostengo è che un sistema tecnico è sempre, al tempo stesso, tossico e terapeutico, e che la politica è quella che deve introdurre un principio in base al quale occorre limitare la tossicità e incrementare la capacità curativa, a ogni costo. L’economia invece stabilisce che occorre incrementare il profitto ad ogni costo, e non gli interessa affatto della tossicità o la curatività, ed è per questo che bisogna difendere la politica dall’economia.
Spostandoci allora dal piano del conflitto tra capitale e lavoro al piano del conflitto tra globale e locale, dalla fabbrica alla città, non crede che Henri Lefebvre aveva già visto nel 1974 un’espansione indefinita dello spazio astratto del capitale globale e una conversione dello spazio da contenitore delle attività umane a matrice di un sistema di produzione prevalentemente eterodiretto? I processi che lei descrive, come la degradazione degli ambienti di vita in “milieux dissociati”, o il sempre più integrale processo di “disapprendimento” che investe i luoghi della vita associata, che evoluzione politica e socioeconomica possono avere?
Lefebvre è una fonte molto interessante di riflessione, e lo è stato anche per Baudrillard, io ho fatto un seminario per due anni su Lefebvre, sul diritto alla città e un altro in Cina perché Lefebvre è molto conosciuto in Cina. Cominciamo col dire che Lefebvre ha dei limiti, che si possono ricondurre alla sua appartenenza a un marxismo classico. Io distinguo Marx dal marxismo, e definisco classico quel marxismo che postula in maniera dogmatica la potenza del negativo del proletariato. È un’osservazione un po’ marginale rispetto alla vostra domanda ma da quello che dirò dopo se ne capirà l’importanza. Lefebvre ha parlato molto di globalizzazione e della trasformazione delle città nei grandi complessi sviluppati dal funzionalismo urbano e dalla tecnocrazia urbanistica, soprattutto nel Diritto alla città, che nella prima edizione francese ha in copertina una immagine della città in cui io stesso sono cresciuto, che è Sarcelles. Quindi io sono nato nei luoghi di cui parla Lefebvre, e perciò li conosco molto bene. La descrizione che egli fa della città è per me molto interessante, molto competente, e quindi necessaria, ma la trovo anche molto incompleta, perché c’è qualcosa che lui non vede, ed è qualcosa che descrive invece Pierre Vernant quando, a proposito della urbanizzazione nella Grecia antica, spiega che la città è in prima istanza una macchina da scrivere e che quello che determina la cittadinanza greca è la scrittura sulle mura, nel marmo, delle città. Quindi è il processo di esteriorizzazione tecnica attraverso la scrittura degli enunciati mnesici, siano essi ricordi o anticipazioni, ritenzioni o protensioni, che permette la costruzione della politeia greca, un processo che di fatto comincia nelle grotte dipinte del paleolitico superiore. Tutto questo è stato trascurato da Lefebvre, e perciò ha compreso male la questione della cibernetica(7), in quanto lui, come tutti i marxisti dell’epoca, ritiene che la cibernetica è un’ideologia a servizio degli idealisti o dei capitalisti contro la dialettica negativa del proletariato. Questa è una visione datata e assolutamente catastrofica che ha condotto i marxisti a ignorare completamente quello che stava accadendo negli Stati Uniti – e anche quando erano antisovietici, come lo era Lefebvre, non sono stati minimamente in grado di capire quello che stava accadendo con la cibernetica. Quindi non è stato in grado di comprendere le implicazioni e la sfida della cibernetica, che si deve intendere come l’ultimo stadio della “grammatizzazione”. E perché è così importante? Perché oggi le città contemporanee sono diventate il supporto della dimensione che si definisce “ubiquitous computing”, vale a dire l’Internet of Things, e perciò sono spazi urbani strutturalmente costituiti da quelle che definisco “ritenzioni terziarie”, ovvero hypomnémata, tecnologie della memoria, in quanto registrano quello che accade ad ogni loro componente. Per fare un esempio oggi ci sono materiali nell’industria delle costruzioni che permettono di registrare tutto quello che gli succede, come tensioni eccessive negli elementi strutturali che potrebbero essere pericolosi per l’intero edificio, consentendo agli architetti di intervenire per fare manutenzione. Tutto questo Lefebvre lo vede come pura alienazione, ma aveva torto perché è uno sviluppo legato a quello che Simondon definiva il “modo di esistenza degli oggetti tecnici”, e non serve accusare la cibernetica di essere a servizio della proletarizzazione. Sarebbe bastato guardare a Norbert Wiener, che era un uomo di sinistra e denunciava l’utilizzazione della cibernetica per sfruttare i proletari: è sufficiente leggere il libro che si intitola Cibernetica e società per rendersi conto che il primo che ha veramente criticato la cibernetica è lo stesso padre della cibernetica, Wiener, ma credo che Lefebvre non lo abbia letto con attenzione. Non fa che ripetere l’ideologia marxista che su questa questione è completamente stupida. Ora tutto quello che si sviluppa attraverso le reti contemporanee, cioè attraverso il gps o i sistemi per l’orientamento, tutti i dispositivi che si stanno impadronendo dell’insieme della vita pubblica, cioè il commercio, le traduzioni, le relazioni tra genitori e figli, ogni comportamento, dai conducenti dei taxi ai consumatori che passeggiano nelle strade, tutto è controllato da una sorta di “mapping” digitale dell’insieme dello spazio. In che modo opporsi a tutto questo? Pensare di disattivarlo o distruggerlo è una illusione totale, anche se diciamo che occorre appropriarsene. All’inizio hai citato Benjamin Bratton, in The Stack cerca di descrivere un design di tutto questo sistema che sia alternativo, ma personalmente non sono affatto convinto della sua analisi, anche se fa bene a porre queste questioni, e io lavoro con gente che si ritiene vicina alle sue analisi, come David Barry ad esempio. Noi di Ars industrialis invece affermiamo che questo sistema è l’evoluzione del processo generale di grammatizzazione, che è impossibile da rigettare ma occorre criticarlo a fondo, come ha fatto Marx alla sua epoca con la macchina a vapore, l’automazione e la proletarizzazione, analizzando le potenze che animavano quel sistema. E anzi, come ben sai nel Frammento sulle macchine si è spinto ancora più lontano, anticipando quello che accade in questo momento. E quale critica si può fare oggi? Si potrebbe affermare che il proletariato può rivoltarsi come una potenza del negativo contro le macchine. Ma io non lo credo affatto, perché il proletariato sta scomparendo, sostituito dalle macchine, che è quello che afferma Marx nei Grundrisse. Non esiste più un proletariato, o se esiste è un lumpen proletariat completamente disorganizzato e asservito, il proletariato del click legato al “Mechanical Turk” di Amazon. Inoltre ritengo che le tecnologie digitali stiano sostituendo il proletariato e che la questione che pongono i Grundrisse, ovvero come reinvestire attraverso nuove forme di sapere le possibilità aperte dalla robotizzazione, sia la vera questione. Ma in questo bisogna andare oltre Marx, perché Marx ignorava totalmente un concetto fondamentale, che è il concetto di “entropia”. Anzi è più corretto dire che lo conosceva e lo ha sottovalutato, mentre chi lo ha rigettato in modo esplicito è Engels, dopo la morte di Marx, affermando che non è un concetto dialettizzabile, e perciò è falso, che è un ragionamento assurdo. E invece occorre rimetterlo al centro delle nostre riflessioni per una ragione molto semplice, perché le piattaforme algoritmiche per come funzionano sono entropiche, e dunque sono autodistruttrici. Esse infatti impoveriscono radicalmente i produttori e le classi popolari rendendoli insolvibili, obbligando il sistema a rilasciare crediti insolvibili, come è accaduto con la crisi dei subprime nel 2008. Stiamo perciò di nuovo facendo esattamente la stessa cosa, ma con la consapevolezza che alla base della catastrofe economica c’è anche una catastrofe ambientale(8).
E come pensa che si possa arginare l’entropia generale?
Quello che noi affermiamo, e dicendo noi mi riferisco a differenti gruppi, e in particolare al collettivo Internation che si è riunito la settimana scorsa a Ginevra facendo una conferenza stampa presso gli uffici dell’ONU, è la necessità di una politica industriale che valorizzi il lavoro e non l’impiego. Questa la definirei una posizione post-post operaista, perché penso che gli operaisti avevano ragione al margine, ma non nel cuore del dispositivo. Io ad esempio sono stato operaio, ho lavorato in diverse officine e so cos’è il lavoro manuale, e a partire da questa esperienza penso sia vero che, come affermano gli operaisti, esista un’inventività operaia; ma questa inventività è stata sempre più marginalizzata o manipolata con ogni sorta di tecnica manageriale, a partire dal toyotismo, ma anche con gli sviluppi sperimentati in Francia, Germania, Stati Uniti. Dunque l’operaismo è un’illusione, mentre la critica del post-operaismo, che riguarda piuttosto il capitalismo cognitivo, afferma ad esempio con Antonella Corsani, trovandomi completamente d’accordo, che il free software abbia creato una matrice di produzione radicalmente nuova e promettente. E tuttavia il free software si è diffuso anche attraverso l’open source, che è cosa diversa e conduce ad una iperproletarizzazione, in quanto i margini sono ancora più ridotti rispetto all’officina, contrariamente a quanto affermato dalla teoria del capitalismo cognitivo. Oggi per contro penso occorra riprendere la questione del lavoro in quello che aveva di giusto, occorre attualizzarla e criticarla, facendo fronte ad una nuova realtà, che è quella dell’applicazione della legge del calcolo a tutti i comportamenti umani, e della conseguente eliminazione di tutto ciò che non è calcolabile. Erwin Schrödinger, insieme ad altri grandi saggi, ha definito il vivente come entropia negativa, dimostrando che quello che permette al vivente di essere tale è la “neghentropia”, ovvero ciò che non può essere calcolato dal sistema. Tale visione consente di sostenere una lotta contro questa economia politica, che io definisco “economia a-politica” perché il suo obiettivo è quello di eliminare lo spazio politico stesso. Occorre perciò riaffermare che sì, il lavoro è l’avvenire, ma come lavoro al di fuori dell’impiego, e su questo avevano ragione gli operaisti, ma noi sosteniamo che occorre sostenerlo con quello che chiamiamo “reddito contributivo”, che è diverso dal “Basic income”. Questa è infatti una proposta compatibile con il quadro neoliberale, molto discutibile dal punto di vista sociale, perché equivale a dire che è necessario che i poveri siano alienati attraverso il reddito, visto che in genere si tratta di un reddito inadeguato, che non permette di vivere dignitosamente. E perciò penso che occorra valorizzare il lavoro al di là dell’impiego e non attraverso il reddito di base, ovvero attraverso un processo che consenta di ricostituire quelli che io definisco “milieux associati”. Si tratta di un ragionamento che ho sviluppato 12 o 13 anni fa nel libro Reincantare il mondo, nel quale avevo cercato di dimostrare che appunto le reti di collaborazione sul free software sono casi di ricostruzione di milieux associati. Ma questo concetto di milieux associati e dissociati deriva da Simondon, il quale ha parlato di milieux tecnogeografici analizzando ad esempio il modo in cui una turbina idroelettrica permette di fare del mare una funzione tecnica. Quello che non poteva vedere Simondon, è che la tecnica oggi fa lo stessa cosa con gli uomini, che è quello che fa Amazon ad esempio, e che occorre andare oltre questo. Credo sia necessario un “reapprendimento” legato ad una rifondazione dei saperi, perché quello che oggi in fisica o biologia si chiama sapere non è più veramente “sapere”, ma una strumentalizzazione di teoremi a servizio della calcolabilità dei big data, che consentono di compiere performance come lanciare razzi o vendere medicinali. I saperi invece sono sempre riferiti alla visione d’insieme, ovvero hanno sempre l’ambizione di costituire una coerenza globale che all’inizio del XX secolo Alfred Whitehead rivendica e definisce “cosmologia speculativa”. E credo infatti che oggi si debba rileggere Marx con Whitehead.
Quindi mi sembra di capire che lei non attribuisce alcun ruolo al conflitto…
Quello che credo è che vada letto il conflitto in seno alla questione dei saperi. Poiché ogni sapere è fondato sul conflitto, la vera questione è di rimettere il sapere al cuore del dispositivo, e mi riferisco ai saperi non accademici, artistici, sportivi, della vita quotidiana. C’è conflitto ovunque, e questo consente di procedere verso un mondo migliore, Aristòn in greco. Si tratta di un miglioramento costante del modo di vivere di cui ha parlato Whitehead nell’Art de vivre. Ora la questione che si pone oggi è quella che definirei questione dell’ipermateria. Attraverso questo concetto vorrei superare la fisica materialista del marxismo. I marxisti in quanto materialisti non sono meno ingenui degli idealisti quando criticano questi ultimi perché ritengono che lo spirito e la materia si contraddicono, o che la materia conti più dello spirito. Se infatti si adotta l’accezione di materia che troviamo in Marx, occorre tenere presente che si tratta di materia organizzata e dunque di materia spiritualizzata, cioè una materia nella quale lo spirito ha messo in forma una sorta di regola, ha messo in forma la materia. Che è la stessa cosa che riscontriamo oggi con il digitale, e non soltanto con i software, ma anche con la microelettronica e la nanoelettronica, che hanno permesso a Intel, grazie al fondatore, il fisico Gordon Moore, di sfruttare le forme materiali micrometriche per realizzare una miniaturizzazione straordinariamente potente che ha consentito di moltiplicare per due ogni due anni la capacità di calcolo della memoria. È così che gli Stati Uniti hanno preso il controllo di questa industria – non attraverso il software. E in questo modo hanno sfruttato quelle che io chiamo le virtù logiche dell’ipermateria, perché la logica è nell’ipermateria. È questo che non comprendono i marxisti. Io sono ancora marxiano ma non sono più marxista, i marxisti a mio parere sono una catastrofe che ha completamente sterilizzato Marx, lo ha dogmatizzato. Oggi, se si vuole combattere le piattaforme, le logiche di alienazione di cui abbiamo parlato, occorre fare una critica logica dell’ipermateria. Io ho creato da 13 anni Institut de Recherche et d’Innovation (IRI) per sviluppare modelli di piattaforma alternativi al modello dominante. Purtroppo non sono ancora riuscito a convincere né il governo francese, né l’Unione europea, né le industrie elettroniche per cui ho lavorato che è questo che occorrerebbe fare. Cosa significa? Che bisogna creare piattaforme basate su strutture di dati concepite per proteggere l’incalcolabile, consentendo di non ridurre tutto alla calcolabilità e di tornare a valorizzare quello che Aristotele chiamava la deliberazione, cioè il logos. Continuo a credere a questo, e che prima o poi questa idea finirà per essere sviluppata. Una cosa che mi rattrista molto è che l’unico potere pubblico che capisce quello che affermo io è quello cinese, ciò in quanto i cinesi capiscono che devono smarcarsi completamente dall’occidente. Ma penso che sarebbe ora che l’Europa si riappropri di questa prospettiva. Il problema è che i buoni ingegneri italiani, belgi, tedeschi e francesi partono per gli Stati Uniti, ma molto presto partiranno per la Cina. Sarebbe necessario cominciare a sviluppare una visione capace di comprendere che i sistemi dinamici sono fondati sulla contraddizione, e che la contraddizione non è un problema, è quello che determina la dinamica di un sistema. E d’altra parte la contraddizione non può più essere pensata a partire dal modello della dialettica, ed è su questo piano che a mio parere Toni Negri è al tempo stesso interessante e deludente. Negri all’inizio era un marxista classico, un operaista che è arrivato a Parigi aiutato da Althusser, e poi si avvicina a Gilles Deleuze. Ma il problema è che se ci si avvicina a Deleuze non si può continuare a essere dialettici. Ora, il lavoro che avrebbero dovuto fare i post-operaisti, ovvero lavorare al di là della dialettica le contraddizioni dei sistemi dinamici, non è stato fatto. Oggi occorre farlo e per farlo bisogna lavorare sulle logiche dell’ipermateria, cioè bisogna ricominciare a fare un lavoro di costruzione di un sapere fondamentale, e per questo sono importanti Whitehead e Simondon. Che è gente che va al di là del marxismo.
Lei non è preoccupato dal modello cinese?
Quello che mi preoccupa di più è che non esiste un modello europeo. Si accusano gli americani di ogni cosa e io dico di no, occorre accusare gli europei di non essere capaci di opporsi a questo, gli americani seguono la loro logica e la loro logica è quella di un capitalismo ultraliberalizzato, così come la Cina segue la propria logica, che è una logica imperiale, e non parliamo dell’impero di Hardt e Negri. La Cina è imperiale da circa 4000 anni, e le posso dire che la conosco bene perché sono 6 anni che ci lavoro… è rimasta un paese imperiale, e il problema non è il partito comunista o il maoismo, è la cultura dell’impero, così come in Unione sovietica è lo zarismo che si è imposto attraverso Lenin e poi Stalin, tornando poi esplicitamente con Putin. Allora noi possiamo anche condannare lo zarismo russo o l’imperialismo cinese, che è molto diverso dall’imperialismo americano e occidentale, perché non cerca di imporre direttamente le proprie vedute all’esterno, ma è in procinto di farlo attraverso le nuove vie della seta. Possiamo anche denunciare quello che evidentemente è un problema, cioè le limitazioni alla libertà di opinione e alla democrazia in generale. Ma se andiamo in Cina ci rendiamo conto che c’è un dinamismo e una originalità del pensiero molto più grande che in Europa, niente di comparabile con noi… La Cina fa pensare a quello che erano gli Usa negli anni ’50 o ’60, quando gli americani attiravano gli artisti e scienziati europei e i filosofi come Lyotard, Derrida, Foucault, e tutta questa gente era inizialmente più nota negli Usa che in Europa. Ebbene oggi è in Cina che questo accade, e quel che è tragico è che gli europei non vogliono vederlo, accusano americani e cinesi di qualsiasi cosa, ma il vero problema sono loro, gli europei. Perciò penso che bisogna fare un gran lavoro. E l’Italia – non lo dico per lusingare i vostri lettori -, credo sia uno dei paesi in cui ci sono più risorse per fare questo lavoro, perché c’è una tradizione di critica sociale veramente molto importante, più importante che in Francia e in Germania. In Italia si dovrebbero trarre le conseguenze dell’incredibile fallimento della sinistra, e direi non soltanto di quella socialdemocratica, o comunista nel senso di berlingueriana, ma della sedicente nuova critica sociale che non ha condotto veramente a nulla fino ad oggi, se non al risultato di generare i 5 stelle, che a me pare molto disdicevole… Il ruolo che può giocare l’Europa passa per il ruolo che devono riprendere gli accademici: sono pagati per questo e devono farlo, devono reinventare il futuro, devono mettersi a fare il lavoro che facevano Derrida, Foucault, Deleuze, Lyotard negli anni ’60 o ’70, o come accadeva in Italia negli stessi anni, dove si viveva una grande fermento intellettuale. Credo si possa fare, serve soltanto un po’ di coraggio e lucidità. Poi una questione molto importante e difficile da trattare è la questione della località e del territorio, c’è un movimento in Italia che mi interessa moltissimo, che si chiama territorialismo e si ricollega a una tradizione deleuziana attraverso Alberto Magnaghi – lo trovo molto interessante e sarebbe opportuno collaborare con grande impegno facendo convergere il territorialismo con il concetto di neghentropia ed anti-entropia sviluppato da Giuseppe Longo. Vive in Francia ma è italiano. Noi lavoriamo a questa ipotesi di ripensare la località in un approccio che tenga conto delle scienze e non soltanto di una ecologia sociale del territorio, e presuppone di ripensare le piattaforme e le interfacce, cioè reinventare l’informatica. Ed è assolutamente possibile, in Italia ci sono a Torino ottimi ricercatori in questo campo.
Non c’è una contraddizione nell’attribuire alla politica un ruolo così centrale, laddove una conseguenza dell’attuale sistema è proprio l’erosione dei corpi intermedi e una individualizzazione del sociale?
Sì c’è una contraddizione ma bisogna tradurla in proposte in positivo. Ad esempio Ursula nuova presidente della commissione europea che pretende di decarbonizzare l’Europa, bisogna prenderla sul serio, pensare che si può fare, bisogna fare proposte molto chiare, bisogna smettere di denunciare l’incuria dei poteri pubblici, la loro doppiezza, che è tutto vero ma non serve a nulla denunciare questo, non fa che aggravarlo, così come non serve a nulla denunciare il populismo, non fa che aggravarlo. Il problema non è denunciare qualcosa ma enunciare qualcosa, cioè produrre enunciati nuovi, generare concatenamenti collettivi fondati su enunciazioni nuove, grazie ai quali si arrivi a convincere la gente che sostiene il populismo, così come la gente che lavora alla Commissione europea, che in effetti hanno torto, e che è possibile fare altro. E quindi bisogna formulare proposizioni, e per farlo bisogna mettersi a lavorare, bisogna smettere di ripetere sempre la stessa cosa. Da vent’anni si sentono ripetere le stesse cose.
In che misura il populismo è il frutto della società automatica?
La società automatica determina dosi altissime di frustrazione, tutte le persone che sono dipendenti da automatismi si lamentano di esserlo, ma il problema è che siccome non riescono a liberarsi da questo automatismo, se la prendono con gli arabi, con gli ebrei, con i funzionari, con quelli del paesino vicino, è quello che avevo analizzato nel libro Pharmacologie du Front national(9), nel quale avevo dimostrato che se il pharmakon non è correttamente e politicamente regolato produce il pharmakós, che in greco significa “capro espiatorio”. E quindi si è in una logica di capro espiatorio prodotto dalla società automatica che si può contrastare soltanto facendo una vera critica della società automatica, che non significa fare una semplice denuncia ma sempre una proposizione, come faceva Kant. Bisogna perciò mettersi a lavorare con i fisici, i matematici e biologi del XXI secolo anche per criticarli, ma soprattutto per elaborare una nuova critica dell’economia politica.
Che ruolo può giocare in questo il collettivo Internation di cui parlava in precedenza?
Questo gruppo si è costituito il 22 settembre 2018 a Londra, ed è un gruppo di scienziati, giuristi, economisti, filosofi, artisti, cittadini e la sua ambizione, la sua tesi comune, è che se gli stati e le imprese non sono in grado di rispondere alle ingiunzioni di Greta Thunberg o di Antonio Gutierrez è soprattutto per ragioni di conflitti di interesse ma anche perché non esistono modelli teorici e pratici che siano capaci di indurre la transizione che riteniamo indispensabile. Perciò noi abbiamo una tesi molto precisa, in parte ispirata dal pensiero di Giuseppe Longo, e cioè che l’economia attuale ignora del tutto i problemi di entropia e neghentropia, e che è necessario tornare a valorizzare nuovamente il lavoro a scapito dell’occupazione intesa come impiego. Se è vero che l’occupazione sta producendo entropia, in quanto è diventata molto standardizzata e proletarizzante, non è un problema la sua perdita. Di qui sosteniamo che bisogna costruire una nuova economia politica e per questo proponiamo in modo molto concreto di configurarla attraverso dei Territori laboratorio. Abbiamo chiesto all’ONU di liberare fondi a partire dai grandi programmi che già esistono, come quelli per lo sviluppo o per l’ambiente, o della lotta contro la fame, l’Unesco ecc. C’è molto denaro e a nostro parere gran parte di questo denaro viene sperperato, e per cominciare basterebbe l’1 per cento di queste risorse per permettere a dei territori nel mondo, e noi ne abbiamo già identificati parecchi, di sperimentare nuovi modelli che consistono nello sviluppo di un’economia industriale di contrasto all’entropia. E a tal fine proponiamo anche di creare una nuova istituzione sperimentale che chiamiamo “Internation”, che è basata anzitutto sull’idea che bisogna restituire al sapere la priorità in tutte le decisioni, e non al profitto. Se è vero infatti che riteniamo sia normale voler generare un profitto, in quanto il profitto permette di fare nuovi investimenti, siamo anche convinti che questo profitto debba essere sociale. Se poi debba realizzarsi prevalentemente nel modello del cooperativismo o dei commons, o debba essere privatizzato è un’altra questione, per quanto fondamentale… In un primo tempo la vera questione è prima di tutto qual è la struttura del valore che noi vogliamo sviluppare e questo valore noi lo chiamiamo neghentropia.
Cosa implica proporre “all’insieme di un territorio di diventare progressivamente un laboratorio”. Cos’è concretamente un territoire apprenant contributif?
E’ un territorio che si candida per sviluppare nuovi modelli di sapere e di lavoro in un contesto che ha come obiettivo quello di limitare l’entropia in ogni sorta di ambito, dalle costruzioni al contrasto alla crescita del livello delle acque, all’inquinamento ecc. e la condizione è che si sottopongano a verifica le tesi che proponiamo all’inizio, e in secondo luogo che si adotti una metodologia che noi chiamiamo ricerca contributiva, che consiste nel far lavorare insieme dei ricercatori accademici, attori sul campo tra associazioni e ong, imprese, servizi amministrativi, abitanti, creando dei territori dell’apprendimento [apprenants] che abbiano come obiettivo di trasformare l’attività imprenditoriale attraverso questo apprendimento. Questo è molto vicino a quello che sta sviluppando Alberto Magnaghi in Italia.
Per chiudere può dirmi qualcosa su quanto la sua biografia ha influito sulla sua ricerca filosofica? In realtà glielo chiedo ben sapendo che questo rapporto è per lei strettissimo.
Ho un percorso piuttosto emblematico della generazione del ’68. Per quanto giovane ho partecipato ’68, e prima ancora alla lotta contro il colonialismo. Come gli altri giovani ero molto politicizzato e mi sono mobilitato contro OAS e la guerra d’Algeria, e poi contro la guerra in Vietnam. Gli anni ’70 sono stati anni di hang out, e la situazione per me è stata molto peggiore dopo il ’68 che prima, anche a causa della crisi economica provocata dalla crisi petrolifera, con la fine dei 30 gloriosi. In questo periodo ho avuto un percorso molto particolare, nell’argot francese si dice i pommés dell’esistenza, gente che è perduta. Ho fatto parte di una generazione che si arrangiava, alcuni sono finiti a lavorare in fabbrica – e in alcuni casi parliamo di normalisti, cioè di persone collocate al vertice della gerarchia della formazione – altri sono partiti molto prima a fare la guerra in Bolivia. Era l’inizio di una grande trasformazione, che per me è l’inizio della fine dell’antropocene. A me personalmente tutto questo è costato 5 anni di prigione, non per ragioni di militanza politica ma per banditismo ordinario, ma è così che sono evoluto nella mia traiettoria molto personale, che è passata dalla gestione di un caffè, a quella di un pub notturno, e di un locale di jazz.
I miei genitori erano gente del popolo mio padre era un operaio elettricista, mia madre era stenodattilografa, erano persone di strati popolari, poi mio padre è riuscito a farsi assumere nella televisione francese perché il potere gaullista promuoveva molto l’ascensore sociale, e dunque la promozione del lavoro a lungo termine. Mio padre poi ha fatto carriera riuscendo a entrare nei quadri superiori. Ma le mie origini sono molto popolari, mio nonno paterno era operaio in fabbrica e mio nonno materno era conducente di locomotive. Anche io ho lavorato come lavoratore manuale, ma poi ho cambiato perché ho potuto studiare in prigione.
Come ha inciso su di lei la detenzione?
Prima di entrare in prigione mi sono interessato alla linguistica. Ero comunista e i comunisti avevano giornali e riviste che erano molto utili perché sostenevano con forza il principio che gli operai e i proletari avevano il diritto di acculturarsi, e non erano degli imbecilli incapaci di comprendere la vita intellettuale, e grazie a questi giornali conoscevo le teorie strutturaliste. In particolare avevo letto un libro di Saussure, il Corso di linguistica generale, e dunque quando mi sono ritrovato in prigione mi sono messo a rileggere il Corso e a studiare la linguistica, e mi sono reso conto che per comprendere la linguistica bisognava studiare la filosofia greca e mi sono messo a studiarla con l’aiuto di un professore universitario di Toulouse che avevo conosciuto prima di finire in prigione, che si chiama Gerard Granel. Era un grande specialista di Husserl, lo aveva tradotto in francese. Così ho scoperto la fenomenologia. Sostengo sempre che la mia carcerazione è stata una sorta di esperienza fenomenologica effettiva, nel senso che gli attribuisce Husserl quando descrive l’esperienza fenomenologica, quella che lui chiama l’epochè fenomenologica, ovvero la sospensione della credenza nella esistenza del mondo. Lui faceva questa esperienza sporadicamente e come condizione artificiale e intellettuale, mentre io facevo questa esperienza in chiave esistenziale permanente, perché di fatto non potevo uscire dalla mia cella. Per questo motivo ho trasformato questo periodo difficile in un periodo di sperimentazione.
Note
(1) B. Stiegler, “Temps et individuation technique, psychique, et collective dans l’oeuvre de Simondon”, in Intellectica, 1998, vol. 26-27, n. 1-2, pp. 241-256 [prima ed. in Futur antérieur, 1993, vol. 19-20, n. 5-6]
(2) J. Baudrillard, Power inferno. Requiem pour les twin towers. Hypothèses sur le terrorisme. La violence du mondial, Galilée, 2002
(3) M. Foucaul, Naissance de la biopolitique, Cours au Collège de France. 1978-1979, Paris, Gallimard, 2004
(4) M. Foucault, L’Oeil du Pouvoir, entretien avec M. Perrot et P. Barou, in J. Bentham, Le Panoptique, Paris, 1977
(5) “Grammatizzazione” è un concetto cardine nel pensiero di Stiegler: è il processo che permette di discretizzare, nel senso matematico del termine, un segnale, e perciò stesso di riprodurlo. Ad esempio, è possibile discretizzare la lingua con i suoi segni diacritici, cioè le lettere dell’alfabeto. L’alfabeto consente di trascrivere qualsiasi lingua del mondo, realizzandone la discretizzazione letterale. Per Stiegler esistono tre tipologie di discretizzazione: letterale, analogica e digitale, che si possono correlare rispettivamente alla scrittura, alla televisione e al computer. Non si tratta perciò di un fenomeno di per sé negativo, ma attraverso questi media la grammatizzazione si può estendere ai comportamenti e alle relazioni, come forma di discretizzazione omologante.
(6) Stiegler è stato “directeur général adjoint” dell’Institut National de l’Audiovisuel (INA), l’archivio nazionale della produzione audiovisiva, dal 1996 al 1999 (ina.fr).
(7) H. Lefebvre, Vers le cybernanthrope. Contre les technocrates, Denoël/Gonthier, Paris 1971
(8) Come ha spiegato in una sua conferenza del 2015 Stiegler, questi temi sono stati da lui trattati approfonditamente nel volume “La société automatique, dedicato al tema dell’automatizzazione integrale e generalizzata che si dispiega con il digitale. In quest’opera sostengo che l’automatizzazione algoritmica conduce all’estinzione del salariato e dell’impiego, dunque alla prossima sparizione del modello keynesiano di ridistribuzione dei guadagni di produttività, il che era ed è ancora oggi la condizione di solvibilità del sistema macroeconomico”. Questa enorme trasformazione conduce secondo Stiegler a un’alternativa:
• “condurre ad una iper-proletarizzazione e ad un pilotaggio automatico generalizzato, che genererebbero al tempo stesso una insolvibilità strutturale e un aumento vertiginoso dell’entropia;
• oppure spingerci a uscire dal processo di proletarizzazione generalizzata al quale il capitalismo industriale ci conduce da 250 anni: incrementare così lo sviluppo massivo di capacità neghentropiche attraverso una politica noetica della reticolazione, che ponga gli automatismi al servizio di capacità individuali e collettive di dis-automatizzazione”.
Cfr. “Uscire dall’Antropocene”, in Kaiak. A Philosophical Journey, 2 (2015): Apocalissi culturali, p. 2. Consultabile a: kaiak-pj.it/images/PDF/rivista….
(9) B. Stiegler, Pharmacologie du Front national, suivi du Vocabulaire d’Ars Industrialis par Victor Petit, Flammarion 2013.
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Il falso mito del merito e il rifiuto del fallimento: il linguaggio al cuore di una società divisa.
di: R. Laghi
Un approccio linguistico-etimologico
Competenze, scrive Boarelli in Contro l’ideologia del merito, è “una delle parole chiave del lessico costruito intorno al merito” (Boarelli 2019, pp. 218-219). Da dove nasce questo concetto? Lo stesso Boarelli ne ricostruisce l’origine e la diffusione, a partire dal libro bianco dell’Unione Europea Crescita, competitività, occupazione, presentato nel 1993 e tappa chiave di un percorso di adesione dell’UE a una visione neoliberale della società (il principio fondante del testo è la “valorizzazione del capitale umano”). Ma che cosa è la competenza?
Se il vocabolario Treccani insiste in primo luogo sugli aspetti legati al diritto processuale e amministrativo (come “misura della giurisdizione attribuita a ciascun ufficio giudiziario” e “complesso delle attribuzioni degli organi dello stato e delle persone giuridiche pubbliche in genere”), per estenderne il significato alla “capacità, per cultura o esperienza, di parlare, discutere, esprimere giudizi su determinati argomenti”(1), chi saprebbe definire con precisione il termine “competenze” impiegato in sempre più contesti (con predilezione per l’educazione e il mondo del lavoro)? Difficile definirlo, perché la vaghezza è stata una sua caratteristica fin dai primi impieghi. E non è un caso. Perché “le competenze giocano un ruolo determinante in questo processo di subordinazione alla visione del mondo economico, perché spingono i sistemi educativi ad abbandonare la costruzione di saperi critici in favore dell’organizzazione di saperi strumentali” (Boarelli 2019, p. 274). Strumentali a cosa? A portare sull’individuo ogni responsabilità, a confinarlo in quella visione del mondo che, da Margaret Thatcher (“La società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, e le famiglie.”) arriva fino al self-branding e alla retorica del successo contemporaneo (2).
Ancora Boarelli: “le competenze agiscono quindi come dispositivi di disaggregazione, contribuiscono a indebolire i legami sociali e le forme di cooperazione, favoriscono la costruzione di identità individuali competitive sul piano economico e autosufficienti sul piano sociale. L’efficacia di questi dispositivi deriva innanzitutto dalla loro capacità di trasformare in modo progressivo e silenzioso il sistema educativo. Poiché una persona competente agisce da sola nel mondo in modo concorrenziale, il sistema nel quale formerà le proprie competenze deve essere basato su una cultura individualistica e competitiva” (Boarelli 2019, p. 306).
Ci pensa Leopardi, citato in coda alla definizione nel vocabolario Treccani, a riportarci al significato etimologico, alla radice di questo concetto: competizione. L’etimologia delle due parole è infatti la stessa e ha la funzione di svelarcene il senso, nel contesto delle società neoliberali in cui viviamo: le competenze sono necessarie alla competizione, all’“imperativo diffuso dell’auto-imprenditorialità” (D’Alia). E qual è l’orizzonte dell’auto-imprenditorialità? Il mercato. Conviene rimanere ancora un istante nel campo dell’analisi etimologica: alla radice di mercato c’è merce, dal latino “mercari” che a sua volta sarebbe una derivazione di “merere”, nel senso di “meritare, acquistare, guadagnare”, con il significato originario (di derivazione greca) di toccare in parte, partecipare. Ma “merere” è anche all’origine di merito. Non stupisce, quindi, che l’elogio costante della meritocrazia sia al suo apice nel periodo storico in cui il mercato viene imposto come modello e misura di ogni aspetto del vivere collettivo e individuale, a discapito di una visione della società basata su diritti e vera uguaglianza. “Ciò che bisogna pretendere non è meritocrazia, ma giustizia!”, diceva lo scrittore Stefano Tassinari agli “indignados” accampati in Piazza Maggiore a Bologna nel 2011 (3).
Perché iniziare dalle parole e dalla loro etimologia? Perché la questione, oltre che politico-economica e sociale, è anche – e ai suoi fondamenti – un problema di linguaggio, inteso come capacità di descrivere e rappresentare la realtà. Fitoussi parla di “regole di governo e regole di vocabolario che tracciano una strada da cui pare impossibile deviare”(Fitoussi 2019, p. 3). Il mito del merito (e della meritocrazia), di queste regole di governo e di vocabolario è diventato un elemento portante, usato sistematicamente per isolare l’individuo dalla società in cui si trova ad agire.
La retorica del merito per nascondere le disuguaglianze
Se guardiamo all’Italia, niente esemplifica meglio la posizione dell’ideologia neoliberale nei riguardi dei concetti di merito e meritocrazia come l’intervento della ministra Teresa Bellanova alla Leopolda (10):
“Chi ce l’ha fatta non è un nemico, chi ce l’ha fatta deve essere riconosciuto come buona pratica per essere d’esempio anche agli altri perché ce la possiamo fare, perché noi dobbiamo dare fiducia in questo paese, perché chi ce l’ha fatta ce l’ha fatta per merito e il merito è di sinistra. A quelli che pensano che tutti possano avere tutto, noi vogliamo dire che il merito è di sinistra e il merito, che si tratti della selezione delle classi dirigenti, che si tratti di concorsi, che si tratti di dirigenti da individuare nella pubblica amministrazione, il merito è il nostro unico parametro di misura.” (4)
Fitoussi individua proprio in questa argomentazione uno degli elementi della “neolingua dell’economia”: “le disuguaglianze si ostentano, non sono mai state tanto esibite: alcuni conducono vite da cani, altri da nababbi. La risposta in neolingua è risaputa: «Il problema è che non amate i ricchi, che non sopportate chi ha avuto successo».” (Fitoussi, 2019, p. 173)
Si tratta della stessa retorica che contraddistingue – tra gli altri – gli interventi del presidente francese Macron, cristallizzata in maniera limpida in un passaggio del suo discorso per l’inaugurazione della Station F, un campus dedicato alle start-up (e non a caso interamente finanziato da Xavier Niel, fondatore e maggiore azionista del gruppo Iliad e co-proprietario del gruppo Le Monde) a giugno 2017: «Une gare, c’est un lieu où on croise les gens qui réussissent et les gens qui ne sont rien». (5)
“Les gens qui réussisent“ di Macron sono gli stessi che ce l’hanno fatta di cui parla Bellanova. Un discorso politico che sceglie il merito (e di conseguenza la riuscita, il successo) come parametro unico, che postula che ciò dipenda esclusivamente dall’impegno individuale, occulta le disuguaglianze che attraversano la società e rendono le condizioni di partenza drammaticamente diverse, a un tal punto che un percorso di successo è, per alcuni, escluso a priori. Si potrebbe inoltre affermare che, adottando questa visione, la politica (italiana) rifiuta la responsabilità di attuare l’articolo 3 della Costituzione Italiana: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” (6)
I cambiamenti che avvengono sul piano linguistico procedono in parallelo a quelli economico-politici, in una sorta di loop in cui si sostengono e rinforzano a vicenda e che porta a percepire questo sistema linguistico-economico come naturale, come l’unico possibile. Le conseguenze sugli individui e sulla società sono quotidianamente visibili. Ci troviamo a usare un linguaggio sempre più scarno che limita la nostra capacità di articolare un pensiero critico all’ideologia neoliberale, responsabile di aver svuotato parole ed espressioni del loro significato originario (basti pensare a “riforma”) portando avanti una deformazione del linguaggio con obiettivi precisi. Il passaggio da “cittadini” a “utenti” (“consumatori”) è un altro esempio dell’operazione ideologica in atto da tempo sul linguaggio. Non solo: come fa notare David Graeber, se l’1% della popolazione controlla la fetta più grossa di ricchezza disponibile, è il loro linguaggio a designare cosa loro considerano importante (Graeber 2019, p. XVIII). La società, le istituzioni, la famiglia e l’individuo devono essere concepiti in termini di impresa. A chi non si adegua resta solo il fallimento (e lo stigma sociale), come vedremo più avanti.
“Se la conoscenza che i cittadini hanno di ciò che sta loro intorno, dei luoghi in cui lavorano o studiano e delle istituzioni che li rappresentano è filtrata attraverso un vocabolario di matrice economica, è inevitabile che il loro punto di vista ne sia condizionato. (…) Il risultato di questa combinazione tra il dominio del vocabolario economico e quello del vocabolario specialistico è la trasformazione della funzione stessa del linguaggio, che assume un ruolo esclusivamente operativo, strumentale, a discapito della sua dimensione analitica e critica.” (Boarelli 2019, p. 848)
Un quadro simile emerge dall’analisi che Daniel Markovits traccia nel suo The meritocracy trap. How America’s foundational myth feeds inequality, dismantle the middle class and devours the elite. Il lavoro di Markovits riflette la società statunitense in cui nasce e inquadra le conseguenze distorsive della meritocrazia, individuandola come causa dell’aumento della disuguaglianza e della polarizzazione della società americana: da un lato una élite che ha sempre più i connotati di casta aristocratica, dall’altro una classe media sempre più esclusa dalle opportunità di mobilità sociale. Polarizzazione che continua ad alimentare, in un circolo sempre più vizioso (e violento), rancore, odio e paura tra le classi nella società americana. Considerato che la meritocrazia è uno dei miti fondativi degli Stati Uniti, il quadro tracciato da Markovits non è del tutto sovrapponibile al contesto europeo e italiano in particolare, ma delinea alcune tendenze in atto anche nelle nostre società. L’aumento del divario tra “chi ce l’ha fatta” e “chi non è niente” è causa di instabilità politica e forti tensioni sociali. “Whereas aristocratic inequality was both wasteful and unjust, meritocratic inequality declares itself at once efficient and just” (Markovits 2019, p. 508): è proprio da questo artificio retorico (falso) che prende corpo il sentimento di rancore e risentimento che attraversa la società. Politica e linguaggio hanno scaricato ogni responsabilità sull’individuo (inteso come capitale umano da valorizzare, da portare al successo), così che il disagio dell’individuo spinto sempre più ai margini non può essere espresso in termini di ingiustizia – considerando anche che la retorica della meritocrazia è spesso adottata dalle sue stesse vittime, perché appare intrinsecamente giusta: il disagio dell’individuo contemporaneo prende dunque la forma del populismo e del nativismo, linguaggi di coloro che non hanno più linguaggio per esprimere l’ingiustizia, “victims without a language of victimhood” (Hochschild, citato in Markovits 2019, p. 1335).
“La stimolazione di un nuovo tipo di soggettività basato sulla competizione muta la natura dei legami sociali, indeboliti da una visione marcatamente individualista: ciascuno deve affermare se stesso, meritare il proprio successo, autodisciplinarsi per non essere incluso nella categoria dei non meritevoli.” (Boarelli 2019, p. 799)
E ai non meritevoli cosa succede?
Il rifiuto del fallimento e la sua privatizzazione
“We sprint as much to outrun failure as to catch success. Failure conjures such vivid pictures of lost souls that it is hard to imagine a time, before the Civil War, when the word commonly meant “breaking in business”—going broke. How did it become a name for a deficient self, an identity in the red? Why do we manage identity the way we run a business—by investment, risk, profit, and loss? Why do we calculate failure in lost dreams as much as in lost dollars?” (Sandage 2006, p. 2)
Sandage sottolinea come il termine fallimento (“failure”) sia passato dalla sfera economica e aziendale (dove identifica la bancarotta) al discorso sull’io, sull’esistenza umana, sul non riuscire: ancora un esempio dello slittamento semantico verso il linguaggio dell’economia, dell’impresa.
In questa visione del mondo e della vita umana, il fallimento è relegato a disfunzionalità individuale e le cause strutturali e sistemiche sono rimosse dal quadro di analisi. Disfunzionalità individuale che porta a stress, ansie, depressione. Un disagio che viene medicalizzato e relegato alla sfera privata, a colpa individuale attraverso l’uso della retorica del merito, dell’elogio di “chi ce l’ha fatta” e dell’additare, con disprezzo, chi invece non è riuscito ad arrivare al successo (come se fosse equamente accessibile a tutti).
“The privatisation of stress is a perfect capture system, elegant in its brutal efficiency. Capital makes the worker ill, and then multinational pharmaceutical companies sell them drugs to make them better. The social and political causation of distress is neatly sidestepped at the same time as discontent is individualised and interiorised.” (Fisher 2018, p. 467)
Il ritornello è sempre lo stesso. Le radici di questa visione del mondo affondano già nella società americana del diciannovesimo secolo, come ci ricorda Sandage, e nelle parole usate per descrivere “chi non ce la fa” riecheggiano le parole usate per descrivere gli schiavi. La giustificazione morale dei sistemi basati sulla disuguaglianza ha radici profonde.
“The great American Assumption” promoted the idea that men who were failures simply lacked ability, ambition, or both; what had once been said of the captives of slavery now belittled the misfits of capitalism. The new birth of freedom was an ideology of achieved identity; citizen and slave gave way to success and failure as the two faces of American freedom. That ideal depended not only on the chance of success but on the risk of failure. (…) The problem is not that our bootstrap creed is a bald-faced lie, although it is. The real problem is that failure hits home; we take it personally. To know a “great loser”—a father, a neighbor, a classmate—is to glimpse our own worst future. Times change, deals collapse, accidents happen. (Sandage 2006, p. 18)
Non stupisce, quindi, che il fallimento, relegato a questione privata, a una supposta mancanza di determinazione, coraggio, talento sia vissuto come colpa personale; si opera così un rovesciamento di prospettiva che, nella mente della persona che “fallisce”, suona come “il sistema va bene, sono io che non sono capace.” La critica è rivolta in esclusiva contro il sé fallimentare e mai contro un sistema ormai percepito come unico possibile. L’artificio è linguistico, le conseguenze sono reali e drammatiche. La percezione delle ingiustizie e lo scontento non riescono così a trasformarsi in un’espressione collettiva di rabbia, rimanendo focalizzate verso l’interno. Trasformare questa depressione in rabbia politica è un progetto politico necessario, scriveva Mark Fisher (Fisher 2018, p. 645). Ma questo è possibile nella società del merito?
“L’ideologia del merito è ostile al conflitto. Il conflitto sociale si nutre dell’azione collettiva, il merito dell’iniziativa individuale. Il primo persegue scopi comuni che investono la società nel suo complesso, il secondo concepisce il progresso sociale come ricaduta naturale di una somma di successi personali. L’uno prefigura un diverso ordine sociale, l’altro conferma quello esistente.” (Boarelli 2018, p. 1132)
“(…) uno dei motivi dell’assenza di conflitto sociale è proprio il dilagare della depressione. “(Arminio 2020, p. 89)
Al conflitto, sostiene Boarelli, si è sostituito lo scontro: contrapposizioni aprioristiche che propongono una visione semplificata della realtà, senza nessuna componente costruttiva. Lo vediamo all’opera quotidianamente nel dibattito pubblico, nella polarizzazione (urlata) di fazioni che si contrappongono senza confrontarsi, spesso sul tono dell’insulto o del disprezzo. Ma anche nell’individuazione pretestuosa di gruppi o categorie additati come capro espiatorio contro cui scagliare, di volta in volta, il rancore dei cittadini. E proprio i non meritevoli sono tra i bersagli più ricorrenti, proprio perché, secondo le logiche analizzate fino a qui, sono considerati i soli colpevoli della propria situazione. Di rimando, sia detto en passant, chi ha successo lo imputa unicamente al proprio merito, automaticamente elevandosi a una posizione di auto-proclamata superiorità morale. Ma pretendere che il successo di alcuni non sia collegato al fallimento di altri è una pura illusione. (7)
Coltivare ombre, fallire meglio
Se il sistema di valori è unico, tutti coloro che non si conformano (sia che non vogliano sia che non riescano) vengono relegati ai margini, esclusi, disprezzati. L’accelerazione impressa da nuovi media e dispositivi mobili ha reso questo processo ancora più pervasivo: basta pensare all’uniformazione che passa attraverso i media mainstream e i social network commerciali, che hanno declinato in ancora nuove forme la retorica del successo e l’auto-sfruttamento necessario a raggiungerlo. L’imposizione di una lingua unica e di una visione unica della società corre ancora più forte, in un circolo che si autoalimenta.
“This instant is insomniac, amnesiac: it locks us into a reactive time, which is always full (of outrage and pseudo-novelty). There is no continuous time in which shadows can grow, only a time that is simultaneously seamless (without gaps: there is always ‘new’ content streaming in) and discontinuous (each new compulsion makes us forget what preceded it). The result is a mechanical and unaknowledged repetition. Is it still possible for us to cultivate shadows?” (Fisher 2018, p. 552)
Per uscire da questa prospettiva unica neoliberale che fa del merito un suo pilastro, è necessario prima di tutto disfarsi della lingua che lo alimenta e che ci inganna, per ricostruirne una le cui parole aderiscano alla realtà, svelandola. Per tornare a coltivare ombre, per attraversare il fallimento come primo passo verso un futuro diverso, intendendo questo fallimento come il fallire rispetto al paradigma del successo neoliberale ovvero (ri)scoprire forme diverse di esistenza, di realizzazione, di reale pienezza di vita.
“Anche il pensiero unico ha le sue periferie, i suoi colpi a vuoto, le sue mancanze. Tutto quello che sembra un fallire oggi è la nostra unica speranza.” (Arminio 2013, p. 33)
Riallacciare parole al reale: per una resistenza lessicale
Perché il fallimento, pur inteso nella sua accezione positiva e creativa spiegata qui sopra, non sia l’unico orizzonte possibile, quali parole possiamo mettere avanti in risposta, per tenere salde alcune idee di importanza fondamentale? Attraverso quali scelte lessicali possiamo riportare il linguaggio ad aderire alla realtà e a opporlo alla distorsione del significato imposta dalla “neolingua dell’economia”?
Voglio fare una semplice proposta lessicale, che possa essere indicazione di lavoro per costruire un bagaglio culturale, un vocabolario collettivo per resistere e per aprire nuovi percorsi verso il futuro. Tre parole per tre idee.
Conoscenza: etimologicamente (dal latino cum-gnoscere, a sua volta di derivazione greca), ci riporta all’idea di apprendere con l’intelletto. Apprendimento, quindi, ma anche uso dell’intelletto contro la dittatura delle emozioni che oggi domina i media, la società e anche la politica, che sia definita populista o meno, dato che il compito dei leader politici del nostro tempo “è rappresentare emozioni più che classi sociali, stati d’animo più che programmi di governo” (Tonello 2019, p. 55).
Disciplina: deriva da discepolo (dal latino discere: imparare). La capacità (e il desiderio) di imparare (che porta alla conoscenza) e insieme la capacità di apprendere da altri (il discepolo è sempre discepolo di qualcuno), includendo l’importanza della trasmissione dei saperi, cioè una dimensione relazionale, sociale. comunitaria. Ma anche nel senso di disciplina del sé, di misura, lontana però dall’idea di obbedienza (che, invece, etimologicamente, rimanda all’eseguire comandi di altri, al sottomettersi al loro volere).
Umiltà: da humus, terra. Tenersi radicati, umili, applicando la disciplina del sé contro la retorica della visibilità e del successo economico. Ma anche come legame con il pianeta, come rifiuto dell’antropocentrismo e dello sfruttamento capitalistico dell’umano e delle risorse della terra.
Radicare le parole nel reale, anche attraverso la loro etimologia, è un modo per riappropriarsene, per uscire dalla gabbia ideologica in cui siamo stati rinchiusi anche attraverso il linguaggio e tentare, così, di aprire nuove possibilità per il futuro.
Note
(1) http://www.treccani.it/vocabolario/competenza
(2) G. D’Alia, Self-branding. La retorica del successo contemporaneo, Rizomatica 02. rizomatica.noblogs.org/2020/05…
(3) R. Laghi, “Indignados” in piazza anche a Bologna, MicroMega temi.repubblica.it/micromega-o…
(4) Teresa Bellanova, Ministra delle politiche agricole, alimentari e forestali, intervento alla Leopolda 10, 20 ottobre 2019, yewtu.be/watch?v=IJW6MiY6RHQ (min. 13:34)
(5) “Una stazione è un luogo in cui si incrociano le persone che riescono e quelle che non sono niente” (traduzione mia). Per un’analisi del discorso di Macron e di ciò che il suo linguaggio rappresenta, rimando a Mathieu Slama, Les gens qui réussissent et les gens qui ne sont rien: ce que révèle la petite phrase de Macron, Le Figaro, 3.7.2017, lefigaro.fr/vox/politique/2017…
(6) Costituzione della Repubblica Italiana, https://www.senato.it/documenti/repository/istituzione/costituzione.pdf
(7) Matthew Stewart, The 9.9 percent is the new American aristocracy, The Atlantic, June 2018 theatlantic.com/magazine/archi…
Bibliografia
Arminio, Franco, Geografia commossa dell’Italia interna, Mondadori, 2013.
Arminio, Franco, La cura dello sguardo., Bompiani, 2020.
Boarelli, Mauro, Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019, (ebook).
Fisher, Mark, K-Punk. The collected and unpublished writings of Mark Fisher (2004-2016), Repeater, 2018.
Fitoussi, Jean-Paul, La neolingua dell’economia, Einaudi, 2019.
Graeber, David, Bullshit jobs. The rise of pointless work and what we can do about it, Penguin, 2019.
Markovits, Daniel, The meritocracy trap. How America’s foundational myth feeds inequality, dismantle the middle class and devours the elite, Penguin, 2019,(ebook).
Sandage, Scott A., Born losers. A history of failure in America, Harvard University Press, 2005.
Tonello, Fabrizio, Democrazie a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza, Pearson, 2019.
#autoimprenditorialità #competenze #fallimento #linguaggio #mercato #merito #meritocrazia #neoliberismo #successo
The Birth of the New American Aristocracy
The class divide is already toxic, and is fast becoming unbridgeable. You’re probably part of the problem.Matthew Stewart (The Atlantic)
Self-branding. La retorica del successo contemporaneo
G. D’Alia
Ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza dell’ordine naturale, deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza.
[…]
L’unica maniera per mettere in discussione il realismo capitalista è mostrare in qualche modo quanto sia inconsistente e indifendibile: insomma, ribadire che di ‘realista’ il capitalismo non ha nulla. Mark Fisher, Realismo Capitalista
AbstractA partire dall’analisi retorica delle strategie di self-branding digitale, il modello di successo contemporaneo verrà qui messo in relazione con le strutture socio-economiche del tardo capitalismo. Una volta storicizzata, la pratica del self-branding non apparirà più una semplice deriva narcisistica causata dalla cultura dei social network, ma si renderà evidente come essa sia piuttosto una conseguenza, sul piano culturale, dell’economia del lavoro precario. L’intento è quello di portare alla luce i messaggi impliciti nel flusso di comunicazione nel quale siamo immersi e del quale siamo parte, leggendoli alla luce della sociologia del lavoro. L’obiettivo generale è di comprendere la natura, a prescindere dal modo in cui rispondiamo personalmente, dell’invito che il contesto mediatico ansiosamente ci rinnova: sfoggiare contenuti personali, aggiornare con dedizione le numerose bacheche e sorvegliare la nostra footprint digitale, affinché rispecchi alla perfezione l’immagine ideale di noi stessi o, piuttosto, l’ologramma del lavoratore neoliberista perfetto, cioè iper-qualificato, efficiente, flessibile e, soprattutto, sempre motivato.
Il valore della visibilità
Nel 2017 la compagnia di viaggi inglese First Choice, parte del TUI Group (attualmente la più grande multinazionale del turismo al mondo, con sede in Germania), lancia un sondaggio rivolto ad un campione di 1000 individui, dai 6 ai 17 anni, ponendo loro una semplice domanda: “Cosa vuoi fare da grande?” Sul podio, dal primo al terzo, si sono posizionati: Youtuber, blogger/vlogger e musicista/cantante. Il campione preso in esame, di certo non esaustivo, funziona però bene come specchio su scala ridotta di tendenze in atto.Tra le motivazioni che spingono a desiderare questo tipo di professioni, gli intervistati hanno spiegato, ci sono la creatività, la fama e l’opportunità di esprimersi liberamente. L’opportunità di arricchirsi tramite queste attività, invece, risulta l’ultima delle motivazioni prese in considerazione. Il sondaggio suggerisce anche che le professioni tradizionali come quelle del medico, dell’avvocato e dell’insegnante abbiano perso attrattiva in confronto alle carriere promesse dall’industria dell’intrattenimento online, attestandosi sulle ultime posizioni della classifica.
L’interesse per i più giovani da parte della compagnia di viaggi First Choice è stato risvegliato da una vicenda modesta ma emblematica. La protagonista è Beth Ward, una bambina inglese di dieci anni, che nel 2017 ha inviato una mail all’agenzia di viaggi allegando un link al suo video delle vacanze pubblicato su Youtube. Il soggiorno presso il resort Azul Fives in Messico, organizzato da First Choice, è stato l’occasione per girare e montare un video, seguendo la sua passione per il grande schermo. Nella mail la bambina condivideva con entusiasmo il sogno di diventare un giorno regista. Il video ha fatto il giro degli uffici, arrivando fino a Nick Longman, il managing director di TUI UK e Ireland, il quale ha risposto direttamente a Beth facendole i complimenti. La First Choice ha così colto la palla al balzo per lucidare il suo brand e ha organizzato un’esclusiva masterclass di movie making solo per lei. A tenere l’indimenticabile lezione in uno studio di Londra è stato chiamato Martin Kemp, ex bassista degli Spandau Ballet, oggi anche produttore e attore tv. Dopo aver aiutato Beth ad aggiungere al suo video un po’ di “movie magic”, quest’ultimo si è recato nella cittadina natale di Beth, Darlington, nel nord-est del Regno Unito. Qui, d’accordo con gli insegnanti della Barley Fields Primary School, ha organizzato una piccola première del nuovo video delle vacanze, con tanto di tappeto rosso.
L’intera vicenda, sebbene su scala ridotta, ha prodotto visibilità in tutti i sensi: non solo ha accresciuto la reputazione della compagnia di viaggi e ha portato un po’ di attenzione su Kemp, ma ha anche contribuito ad aumentare una ‘visibilità strategica’ sugli orizzonti esistenziali della fascia d’età più giovane, quella alla quale appartiene Beth. Che anche lei abbia goduto degli apparenti benefici di questa vicenda, è quanto in un certo senso ci auguriamo ma a cui purtroppo non crediamo fino in fondo, trattandosi dell’anello più debole della catena. Dal 2017 il video di Beth è pubblicato sul canale Youtube di First Choice, con un titolo che sembra quasi una parodia: “First Choice and Martin Kemp turn little girl’s holiday film into a movie masterpiece” (1). Il desiderio di Beth è impiegato come spot pubblicitario, sebbene raggiunga poco più di 2.000 visualizzazioni. Anche la masterclass tenuta da Martin Kemp è diligentemente filmata e montata, creando così contenuti extra da caricare sul canale. Più che trattarsi di un ‘capolavoro cinematografico’, ovviamente, il video delle vacanze prodotto da Kemp si ispira ai video di travel vloggers e life-style influencers.
Attraverso il confezionamento di un’esperienza da sogno per Beth, infarcita di adulazioni, First Choice ha semplicemente perseguito i suoi scopi lungo un tracciato comune nell’economia degli affetti. In Capitalismo, desiderio, servitù (2010), Frédéric Lordon, ripartendo dall’antropologia di Spinoza, dà conto del meccanismo di creazione di valore in quella che definisce l’attuale economia delle passioni. Per convertire il lavoro in forza-lavoro, il regime del capitalismo contemporaneo ricorre ai desideri privati dei singoli, servendosi della spinta vitale che li sorregge per convertirla in profitto. Il meccanismo non ha nulla a che vedere con i desideri profondi degli individui, funzionando piuttosto come quel fungo parassitoide dalla straordinaria e spietata intelligenza che colonizza il corpo delle formiche per sprigionare le sue spore. Il corpo della formica, una volta utilizzato, viene distrutto in un modo piuttosto sgradevole che invito i più temerari a scoprire su Youtube cercando la parola chiave “cordyceps”. Se a molti, tra coloro che possono permetterselo, l’idea di lavorare e basta risulta decisamente poco attraente, lavorare divertendosi, o lavorare diventando famosi, risulta ben più appetibile. All’utilizzo dei corpi dei lavoratori, si aggiunge quello delle loro passioni. Nello scenario ultraliberista, l’architettura dello sfruttamento si fonda sull’individuo e sul suo desiderio.
Idols of promotion
Parallelamente all’ascesa di figure di spicco come Youtubers o Instagram influencers, negli anni recenti sono proliferati studi accademici per indagare la cultura della fama sui social media. C’è come una sorta di chiamata alle armi intellettuali nel mondo accademico, formulata nella richiesta di rinnovare l’attenzione sul ruolo che la comunicazione mediata gioca nel produrre soggettività nell’economia degli affetti.Particolarmente utile per collocare la vicenda Beth Ward e First Choice, è uno studio condotto nel 2019 da Brooke Erin Duffy e Jefferson Pooley, pubblicata sul Journal of Communication 69 edito dalla Oxford University Press. Gli autori hanno delineato nel dettaglio la figura del prosumer di successo, termine coniato nel 1980 dal futurista americano Alvin Toffler per riferirsi ai consumatori che diventano produttori nell’era di Internet. L’hanno però contestualizzata all’interno del web 2.0 e messa in relazione con i modelli di celebrità attualmente dominanti. Duffy e Pooley ripartono da un famoso studio condotto nel 1944 da Leo Lowenthal, sociologo della scuola di Francoforte. Lowenthal aveva indagato i modelli di successo veicolati dalla stampa di massa attraverso l’analisi delle biografie di personaggi famosi pubblicate sulle riviste. Egli aveva evidenziato come, se all’inizio del Novecento il modello di successo fosse rappresentato da self-made men sul tipo di industriali e politici, già nella metà degli anni Quaranta si registrava un decisivo spostamento a favore di star cinematografiche e atleti. Questo mutamento rispecchiava per Lowenthal il passaggio dall’economia della produzione all’economia del consumo. Entrambi i modelli economici generavano icone a loro immagine e somiglianza. Duffy e Pooley adattano lo stesso approccio di Lowenthal allo scenario mediale contemporaneo, prendendo in considerazione non più solo le biografie pubblicate sulle riviste, ma anche quelle sui social media (Instagram e Twitter). L’analisi qualitativa dei dati ha portato alla conclusione che il modello di successo contemporaneo si incarni in ‘icone della promozione’, un mix delle due tipologie identificate da Lowenthal: si tratta di prosumers, che provengono dalla sfera del consumo ma vengono descritti, e si descrivono, in termini produttivi. La storia di successo per eccellenza è la celebrazione del ‘coraggio promozionale’, quella capacità di mettersi in gioco che permette di affermarsi nell’economia del lavoro precario. La persona famosa viene considerata un medium, nel suo significato letterale: una figura cioè che si fa tramite di un messaggio (il contesto economico vigente) per il pubblico. Concretamente: le celebrità agli inizi del XXI secolo, gareggiando tra loro in una continua competizione per emergere, forniscono modelli di comportamento per gestire la propria immagine. Insegnano cioè al pubblico come fare self-branding per imprimersi nello scenario mediale. Il parziale azzerarsi delle distanze tra famosi e fans (promosso in parte dalle piattaforme social interattive, ma già iniziato con talk-shows e reality tv) velocizza questo lavoro di mediazione e facilita l’apprendimento per emulazione. Le icone della promozione sono gli eroi di due mondi: eroi del consumo, in quanto rappresentano le industrie dell’intrattenimento, dei media e dello sport; eroi della produzione, in quanto condividono i valori della produzione e del profitto, con la differenza che il profitto è generato da loro stessi, in quanto ciò che vendono è la loro identità. Già Lowenthal aveva compreso che l’idolatria è un’espressione del sistema economico dominante. Sulla scorta della sua intuizione, gli autori qui evidenziano che i resoconti – sia autobiografici che biografici – promossi dagli idoli contemporanei testimoniano il diffuso sentimento di ansia che caratterizza l’economia del lavoro precario. Per rispondere all’incertezza, il principio guida promosso dai discorsi e dalle pratiche neoliberiste è di orchestrare il più seriamente possibile il proprio ‘progetto di vita’. La responsabilità per il successo o il fallimento appartiene unicamente all’individuo (o così finiamo per credere). La costruzione dell’identità diviene qualcosa di più simile a un obbligo: una campagna militare, senza confini, instabile, condotta strenuamente da soli. Per Duffy e Pooley, l’esplosione della retorica del self-branding è connessa alla perturbante esperienza contemporanea del lavoro, un obbligatorio mettersi in proprio come unica possibilità per rimanere a galla nel mare in tempesta della società liquida. Le arti del self-branding praticate dalle celebrità contemporanee sono perciò lezioni performative, lezioni in atto di sopravvivenza in tempi vertiginosi. La parte più interessante della ricerca di Duffy e Pooley riguarda l’analisi del brand personale promossa dalle celebrità. A differenza di numerosi studi sul self-branding, infatti, non viene presa in esame la manualistica sull’argomento, ma come le celebrità ne incarnino il modello. Emergono tre aspetti tipici della retorica del successo: la promessa di meritocrazia, lo spirito di auto-imprenditorialità multi-piattaforma e la promozione dell’autenticità.
Meritocrazia per tutti, fallimenti e auto-imprenditorialità
All’alba del XXI secolo il successo è attribuito in modo preponderante al duro lavoro, al talento o alla combinazione di entrambi. Come le icone del mondo della produzione tratteggiate da Lowenthal, le icone della promozione contemporanea condividono la stessa retorica dell’impegno senza riserve e della conquista del successo a partire da umili origini. Il messaggio di questi e altri paradigmatici racconti è che il successo abbia meno a che fare con le coincidenze fortunate e più con l’olio di gomito e le abilità personali. La perseveranza è tra le qualità più celebrate, poiché necessaria ad affrontare gli ostacoli che si incontreranno lungo la strada. Rispetto alle storie di star del cinema o dello sport di metà Novecento, nelle quali spesso era un colpo di fortuna a strapparle all’anonimato, le celebrità contemporanee non aspettano passivamente una buona occasione per dimostrare il proprio valore, ma costruiscono da sole le condizioni del proprio successo. La minuziosa descrizione di sconfitte e rivincite di chi infine ottiene ciò per cui ha combattuto, che si tratti di riconoscimento professionale o di un corpo scultoreo, è tra gli argomenti più amati dai consumatori di riviste, blog motivazionali, profili Instagram e canali Youtube. Più che una fortuna gratuita, quindi, le parabole del successo descrivono un meritato stato di fortuna, visione legittimata dalla convinzione che l’individuo sia pienamente in possesso del proprio destino. In questa retorica fallimenti e rifiuti vengono feticizzati per dare risalto alla perseveranza. Il fallimento è ammesso, ma solo come tappa che precede e legittima il successo, come in tutte le narrazioni del viaggio dell’eroe che si rispettino. Se venisse a mancare il punto di arrivo, ovvero l’auto-realizzazione misurata in termini di fama o guadagno economico, il fallimento resterebbe fallimento e, come tale, non degno di attenzione. La sorte del precario o del disoccupato non sembra essere un aspetto processato dalla retorica del successo. Si tratta del suo tabù, che rivelerebbe le contraddizioni interne al sistema neoliberista di cui è la propaganda. Il ‘vero fallimento’ per la cultura tardo capitalista è non provare affatto, non essersi messi in gioco. Precari e disoccupati sarebbero tali poiché non hanno ancora provato abbastanza. Questa retorica evita astutamente di definirli ‘perdenti’, limitandosi a ribadire la promessa di un’imminente realizzazione esistenziale e professionale. Così facendo, anche gli individui più frustrati permangono nell’arena, inebriati di speranza e disperati di fronte alla prospettiva del fallimento. Ritirarsi dalla competizione sarebbe segno di debolezza o, in alternativa, significherebbe rinunciare alla realizzazione del proprio ‘potenziale’. Le nuove icone di successo esemplificano l’ansiosa esperienza dell’auto-produzione (self-making) che Beck (1992), Giddens (1991), e (con particolare acume) Bauman (2001, 2013) hanno articolato come qualità distintiva della modernità “tardiva”, “alta” o “liquida”. L’io riflessivo contemporaneo gode di una sorta di terrificante libertà, una dimensione esistenziale nella quale, da un lato, tutto il rischio economico e sociale dell’esposizione viene scaricato sul lavoratore mentre, dall’altro, il valore prodotto combattendo la battaglia digitale di self-branding gli viene sottratto dai meccanismi dell’economia dei dati.
Molti di noi sperimentano mercati del lavoro imprevedibili e a breve termine, per poter accedere ai quali bisogna mantenersi attivi su piattaforme digitali che fungono da palcoscenico, costretti a permanere sotto i riflettori, a misurarsi con giudizi e con provini che non finiscono mai. Lo svuotamento e l’impoverimento di strutture statali e comunitarie di sostegno comporta che una “cattiva” performance, per tutti tranne che per i più privilegiati, sia potenzialmente devastante e che, per tutto il tempo, la vita è competizione. Il prisma dell’auto-responsabilità, inoltre, comporta che i ‘perdenti’ della società siano gli unici a portare il peso (e l’umiliazione) del loro ‘fallimento’:
“[Se] rimangono disoccupati, è perché non sono riusciti ad apprendere le competenze necessarie per ottenere un colloquio, o perché non hanno provato abbastanza a cercare lavoro, o perché sono, semplicemente, dei timidi; se le loro prospettive di carriera sono incerte e il futuro li angoscia, è perché non sono abbastanza bravi a farsi degli amici e influenzare le persone e perché non sono stati in grado di apprendere e perfezionare, come avrebbero dovuto, le arti dell’auto-espressione e del fare colpo sugli altri.” (2) (Duffy e Pooley 2019, p. 42)
In questo scenario si colloca l’imperativo diffuso dell’auto-imprenditorialità, più efficace se multi-piattaforma. Quasi metà (91 su 189) dei profili Instagram e Twitter analizzati da Duffy e Pooley, inseriscono in bio un link che rimanda alla propria ultima impresa imprenditoriale: link al disco, link al libro, link alla propria linea di cosmetici, link all’ultima puntata su Netflix, link a… Pubblicità e spirito imprenditoriale sono alla base del self-branding digitale. Le icone della promozione contemporanee rivendicano acume per l’industria, celebrano il lavoro flessibile e la versatilità delle competenze. Lo stesso approccio sembra accomunare diversi settori lavorativi senza molte differenze, ma è senz’altro per gli operatori culturali che creatività e affari si sono mescolati senza soluzione di continuità. L’acume commerciale è ora integrato e attivamente incorporato nell’identità artistica.Autenticità del calcolo: un difficile equilibrio
Se c’è un ritornello instancabilmente ripetuto tanto dalle celebrità che dai giornalisti che le intervistano, è che quello che ci viene mostrato è autentico. L’immagine che le star propongono di loro stessi, rassicurano tutti, è genuina. Lo Youtuber Tyler Oakley intervistato su Time dichiara che è meglio essere se stessi piuttosto che fingere di essere qualcun altro solo per essere più retwittabili (3). Questa retorica è la norma per le star dei social media, ma lo è anche per le star ‘di prima generazione’, come attori e cantanti. Il messaggio principale, in queste e in molte altre riviste del campione preso in esame da Duffy e Pooley, è che i personaggi famosi si siano allineati a “chi sono veramente” e possano finalmente essere sé stessi. L’idea che le star siano proprio come noi è da tempo un tema ricorsivo di tabloid e trasmissioni tv votate al gossip, ancor più oggi legittimato dall’interattività e dalla pseudo-intimità permesse dalla natura dei social network, che regalano incursioni off-screen nelle vite delle celebrità (senza trucco, in cucina, appena sveglie e così via). Nelle bio dei social, le star mediatizzate cercano di minimizzare il proprio statuto di celebrità mettendo l’accento sulla personalità lontana dai riflettori. Nella sua bio Instagram del 2017, Tom Hanks scrive: “I’m that actor in some of the movies you liked and some you didn’t”. Lo stesso vale per le bio dei personaggi del mondo politico. Hillary Clinton sinteticamente si descrive: “Wife, mom, grandma”.
Quello traautenticità e calcolo pubblicitario è un difficile equilibrio checomporta un’imposizione paradossale: utilizzare l’onesta auto-espressione per condurre una strategica auto-promozione. Il richiamo all’autenticità affabile, in questo scenario, funziona come diversivo retorico. L’insistenza sull’io reale che si cela dietro il brand personale è la strategia necessaria per contrastare il naturale scetticismo che pur sempre permane nei confronti di tutto ciò che è promozionale. Condividendo ed elencando passioni, passatempi e interessi (non necessariamente limitati all’esperienza professionale, anzi), tanto le celebrità quanto i lavoratori freelance costruiscono l’invito a entrare in intimità con loro, a fare conoscenza e abbassare le barriere della diffidenza. Mettendosi in mostra invitano il fan o il potenziale cliente a fare lo stesso. Evitando di insistere su aspetti espliciti del marketing classico, come competitività dei prezzi o consigli promozionali, il self-branding trasforma l’auto-promozione in un’esperienza condivisa. L’engagement emotivoè condiviso, ma i guadagni sono personali – e così dev’essere necessariamente, nell’arena impietosa del mercato del lavoro in cui ognuno è costretto a pensare per sé. La scommessa implicita e paradossale nella retorica del self-branding è quella di mostrare una personalità autentica che ‘resiste’ all’inglobamento nel brand. In diverse proporzioni a seconda dello stile personale, la messa in scena del conflitto tra il sé e le logiche di mercato è quindi tipico delle migliori performance di self-branding. Il marketing 4.0, detto anche “marketing umanistico”, sa che il cliente non è più solo un cliente e che, anzi, pretende di essere trattato come un essere umano e non come un semplice portafogli. Il marketing umanistico è l’evoluzione che ci voleva per “conferire autenticità ai marchi trasformandoli in amici […] accessibili e gradevoli, ma a loro volta vulnerabili. I brand devono intimidire di meno. Devono diventare autentici e sinceri, ammettere i propri punti deboli e non fingersi perfetti. Imperniato su un sistema di valori, un brand umanistico tratta i clienti come amici, diventando parte integrante del loro stile di vita.” (Kotler 2017, p. 179)
L’economia chiede ai lavoratori di vendere se stessi e il suo consiglio ha una logica interna: coltivare una personalità autentica, o metterla in scena, è una forma di creazione di valore affettivo che, suscitando un buon livello di coinvolgimento, può condurre a ricevere offerte, promozioni e altre forme di guadagno individuale, in linea con la logica della prestazione che dispensa premi ai più bravi.Le icone della promozione danno sfoggio di abilità pubblicitaria, invitando i followers (lavoratori precari) a seguirne l’esempio, creando oasi di micro-celebrità per accrescere reputazione sociale e possibilità di impiego.
Perché dovremmo scegliere te?
Accade sempre più spesso che gli studi sulla celebrità e la cultura popolare abbiano a che fare con la sociologia del lavoro. Ciò avviene perché l’identità che progettiamo e mettiamo in scena attraverso il nostro comportamento sui social non è più solo un affare personale ma è a tutti gli effetti un affare pubblico, divenendo il nostro biglietto da visita per il prossimo datore di lavoro. La costruzione della soggettività digitale e i processi della sua comunicazione risultano in larga parte condizionati dagli stessi meccanismi di reclutamento della forza-lavoro tipici delle aziende. I criteri di valutazione messi in atto dagli uffici risorse umane sembrano preventivamente incorporati nelle strategie di self-branding digitale. Oltre allo sfoggio delle nostre competenze, siamo invitati a dare spettacolo di una costante motivazione, a mostrare quanto arde il nostro desiderio (di essere, di fare) e quanto la nostra identità vi sia allineata. Per condurre una buona strategia di self-branding, “Forbes” online consiglia di essere “coerenti” e di “vivere il proprio brand”, ovvero di fare in modo che il nostro stile di vita rispecchi fedelmente ciò che raccontiamo di noi e viceversa, poiché il brand personale deve essere “un’autentica manifestazione della tua identità e amplificare i valori in cui credi” (4) (Chan, 2018). La motivazione, soprattutto, conta ancor più delle competenze tecniche, che potranno eventualmente essere apprese all’interno dell’azienda una volta superato il colloquio. Ogni datore di lavoro ha bisogno prima di tutto di sondare l’irriducibile mistero dell’identità del candidato: “Che cosa ama davvero? Cos’è che lo spinge? Ciò di cui noi ci occupiamo lo attrae davvero?”. Si chiede se valga la pena investire nell’assunzione di quel candidato piuttosto che di un altro, e tutti gli aspiranti conoscono il peso di tale incertezza. Questo vale ancor più nel contesto neoliberista dove il datore di lavoro tende sempre meno ad assumersi il rischio economico dell’assunzione, scaricando comunque sul lavoratore il peso delle fluttuazioni del mercato. Ogni assunzione pesa come un investimento e va, pertanto, debitamente ponderata. Tutti i candidati dunque sanno, in partenza, di dover adottare la medesima strategia motivazionale per guadagnarsi la fiducia del datore di lavoro, quella “dichiarazione preventiva di interesse” che per Frédéric Lordon è “una specie di minimo sindacale del proclama di conformità di desiderio – sono fortemente interessato, mi interessa moltissimo…” (2010, p. 112). In questo senso, là dove si incontrano la costruzione dell’identità digitale con le pratiche valutative e selettive del mercato del lavoro, si manifesta a pieno la società capitalistica in cui viviamo, i cui membri, prima ancora che persone libere, sono chiamate ad essere liberi imprenditori di se stessi.
Una lezione ereditata da Lowenthal è che i fenomeni mediatici, come la celebrità, sono inseparabili dal contesto economico e sociale che li produce, funzionando da cartina al tornasole dei valori promossi dalle strutture che governano la vita di tutti i giorni. Il punto in questo caso non è abbracciare un semplice riduzionismo, come se nella corsa all’affermazione i valori non incontrassero resistenza alcuna da parte degli individui. Si tratta piuttosto di familiarizzare con l’idea della reciprocità tra le industrie dello storytelling e le macro-tendenze socio-economiche. L’adattamento dell’individuo contemporaneo al self-branding e, più in generale, alla cultura manageriale, non è affatto pacifico o privo di conflitti come molte delle letture offerte di questo fenomeno lascerebbero intendere. Lo studio di Michal Pagis e Galit Ailon, pubblicato nel 2017 sulla rivista “Work and Occupations”, fa riflettere su quest’aspetto. I ricercatori hanno preso in esame le pagine web di 100 auto dichiarati esperti di settore e consulenti, sia professionali che semi-professionali, nei campi più disparati: marketing, management, musica, media e sviluppo delle competenze sociali. Ne hanno concluso che nella messa in pratica degli insegnamenti proposti sia dalla manualistica motivazionale, che dalle ‘icone della promozione’, i lavoratori manifestino una sottile resistenza nell’applicare i principi del mercato alla narrazione personale. Se la retorica generale invita a insistere su tre aspetti principali quali la costruzione dell’unicità, la socievolezza e l’autenticità, dall’analisi stilistica emerge la tendenza dei consulenti ad attribuire tali caratteristiche al proprio sé, nel tentativo di differenziarsi dall’immagine del ‘mercato’. La propria identità viene a rappresentare ciò che è autentico, genuino, intimo, mentre il mercato viene associato a competitività, utilitarismo, inautenticità. Sebbene il tentativo di ribadire le proprie ‘buone intenzioni’ risulti paradossale e contraddittorio, dal momento che lo scopo è evidentemente promozionale e l’esposizione della soggettività online è in questi casi orientata al mercato, la tendenza testimonia perlomeno l’esistenza di una tensione. Tuttavia, questa tenue resistenza linguistica al processo di mercificazione è già diventata una delle convenzioni retoriche e stilistiche del self-branding. Come scriveva Mark Fisher, “il capitalismo è molto simile alla Cosa di John Carpenter: un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto.” (2009, p. 33)
In conclusione, le competenze retoriche e linguistiche richieste per emergere nell’arena dei self-branders non sono affatto alla portata di tutti. Le operazioni svolte per promuoversi in modo affidabile, ovvero sfruttare il marketing pur non allineandosi passivamente al suo linguaggio, dare prova di empatia, creatività e ironia, si rivelano complesse e sofisticate. Risulta quanto conti, nel mercato contemporaneo del lavoro, possedere competenze linguistiche di alto livello e capacità riflessive. Una tale constatazione solleva una domanda circa la possibilità di apprendere (in quali occasioni e come) tali competenze, che richiedono un capitale culturale di partenza non certo accessibile a tutti. La narrazione della meritocrazia democratica rivela qui la fallacia delle sue premesse.
Self-Branding
Le tecniche di self-branding non nascono dal nulla ma affondano le radici in una terra di mezzo tra la letteratura di self-help e le teorie più aggiornate di marketing. I manuali di self-help si affacciano sul mercato librario già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dispensando buoni consigli su come costruirsi una buona reputazione ed ottenere successo nella vita pubblica e negli affari, e sono inizialmente soprattutto espressione del pensiero liberale. Già nel 1859 in Scozia, Samuel Smiles pubblicava il libro Self-Help, considerato a posteriori la bibbia del liberalismo medio-vittoriano e tradotto in tutte le principali lingue europee, nonché in arabo, turco e giapponese. Per comprendere la natura motivazionale del testo, bisogna contestualizzarlo nell’ambito dell’impegno di Smiles per promuovere l’educazione della classe operaia. Sollecitato da una locale società di mutuo soccorso, nel 1845 l’autore tenne un discorso ad una classe serale, successivamente pubblicato con il titolo The Education of the Working Classes, che costituì di fatto il nucleo del futuro best-seller Self-Help. Il cuore della sua visione può cogliersi in un passaggio tratto da quel primo intervento, nel quale sosteneva che:
Ogni essere umano ha un’importante missione da compiere, nobili capacità da coltivare, un grande destino da realizzare. Dovrebbe avere accesso all’educazione e ai mezzi per impiegare liberamente l’energia che deriva dalla sua natura divina.” (5)
Smiles sosteneva che parsimonia, dedizione e perseveranza fossero le virtù che avrebbero permesso all’individuo di emanciparsi, in osservanza al motto: “Aiutati, che Dio t’aiuta!”. Il titolo di una traduzione italiana del 1880, già alla sua tredecesima ristampa, era infatti il lunghissimo: Chi si aiuta Dio l’aiuta, ovvero: storia degli uomini che dal nulla seppero innalzarsi ai più alti gradi in tutti i rami della umana attività. Smiles ebbe immediati epigoni, a partire dagli Stati Uniti. A seguito dell’istantaneo successo editoriale di Pushing to the Front (un libro apprezzato da personalità come Theodore Roosevelt, Thomas Edison e J. P. Morgan), l’americano Orison Swett Marden fondò nel 1897 la rivista “Success”, che raggiunse il mezzo milione di abbonati dispensando virtù e buon senso per realizzare una vita di successo a tutto tondo. La prospettiva dell’autore, influenzata oltre che da Smiles anche da Ralph Waldo Emerson (un autore molto citato dagli autori motivazionali contemporanei), richiama in molti punti una corrente di pensiero denominata “New Thought”, diffusasi a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in America, che si basava su una concezione positivista e individualista della vita, venata di un certo spiritualismo a tratti ambiguo. Secondo i pensatori del “New Thought Movement”, il successo personale si ottiene facendo leva sul pensiero positivo. Anche il successo finanziario, per Orison Swett Marden, è direttamente proporzionale all’investimento dell’individuo nello sviluppo delle proprie potenzialità. In altre parole, le circostanze esterne (biologiche, familiari, sociali, economiche) influenzeranno la vita delle persone tanto quanto saranno loro stesse a permetterlo. Nello stile conciso e diretto che divenne subito il tratto distintivo del genere, Swett Marden sosteneva:“L’occasione d’oro che stai cercando è dentro di te. Non è nel tuo ambiente; non è nella fortuna o nell’occasione, né nell’aiuto degli altri; è solamente in te stesso.” (6)
Così la forza di volontà viene investita di sommi poteri, facendo di fatto piazza pulita di differenze e specificità. L’individuo a cui si rivolgono i discorsi motivazionali, tutto sommato, è astratto e idealizzato. Non importa se sei donna o uomo, se sei nato povero o ricco, sano o malato, o in quale parte del mondo. Tutto ciò che devi fare è rimboccarti le maniche e seguire dei validi esempi. Tutti gli esseri umani sono creati uguali tra loro e il creatore li dota di eguali diritti alla vita, alla libertà e, nella variante americana, alla ricerca della felicità. Sta pertanto ad ognuno, singolarmente, darsi da fare per conquistarsi ciò che gli spetta. L’impegno che infonderà nelle sue imprese e il valore che mostrerà di avere, determineranno, oltre che la sua reputazione sociale, il suo destino.Nel 2011 la casa editrice Simon & Schuster pubblica una versione aggiornata al web 2.0 del manuale di self-help più venduto di tutti i tempi: How to Win Friends and Influence People di Dale Carnegie, che sempre nel 2011 la rivista “Times” collocava al diaciannovesimo posto nella lista dei cento libri più influenti di sempre. La nuova edizione adatta al nuovo millennio i “consigli senza tempo” pubblicati per la prima volta nel 1936, aggiornandoli all’epoca digitale e globale, rendendo con ciò evidente il filo rosso che collega la tradizione del self-help alle necessità dell’attuale società tardo capitalista.
Non serve comunque setacciare Internet per trovare qualche buon consiglio di auto-imprenditorialità contemporanea. Qualsiasi motore di ricerca si usi, gli articoli di “Forbes” sul self-branding, ad esempio, risultano ben indicizzati. L’arcinoto business magazine americano pullula di articoli dedicati alla costruzione del brand personale, di cui si parla con maggiore insistenza a partire dal 2010. Scorrendo le pagine, si incontrano tutte le parole chiave dell’universo self-help: perseveranza, impegno, coraggio, volontà. Si tratta di ipnotici advices&tips, riassunti in liste da dieci punti, che intendono placare l’ansia fornendo regole chiare, piani d’attacco e strategie per rischiarare la notte del lavoratore indipendente. Se alla prima impressione potrebbe sembrare che nulla sia cambiato dai tempi di Smiles, Swett Marden e Carnegie, bisogna rileggere i consigli sul web alla luce dei fenomeni che hanno radicalmente trasformato lo scenario socio-economico contemporaneo. La ristrutturazione postfordista del mercato del lavoro e il progressivo smantellamento del welfare state hanno lasciato i lavoratori pressoché sprovvisti di reti protettive. Tutti i professionisti, a prescindere dal campo di appartenenza, sono portati a servirsi di strategie auto-imprenditoriali per rimanere a galla nell’attuale scenario economico.
In questa prospettiva il self-branding si inserisce come la proposta culturale neoliberista per affrontare lo spaesamento. Secondo il già citato studio di Duffy e Pooley (2019), la mentalità manageriale si è diffusa nel mondo del lavoro in risposta alla crescente ansia causata dal senso di precarietà vissuta da individui isolati. Nel corso della seconda metà del Novecento, intanto, il settore dei servizi e dell’informazione si è popolato di industrie già adattate all’economia indipendente, che hanno posto le premesse della contemporanea gig-economy, caratterizzata dal lavoro part-time, frammentario e freelance, che può essere letta quindi come un’intensificazione di dinamiche di mercato già esistenti, favorite dall’onda dell’innovazione digitale.
Il self-branding fiorisce quindi sul finire del XX secolo, come parte integrante della svolta organizzativa del mercato del lavoro verso la “cultura d’impresa” (Du Gay 1995) e dell’instabilità delle assunzioniche ne è derivata. In seguito ai numerosi ridimensionamenti delle corporazioni, molti professionisti hanno perso o hanno lasciato i loro posti fissi reinventandosi come “esperti itineranti” (Barley e Kunda 2006) o “società di una sola persona” (Lane 2011), vendendo i propri servizi ‘porta a porta’, cioè organizzando corsi e conferenze o, cavalcando il web 2.0, intercettando gli utenti tramite blog e social network. Il lavoro autonomo è quindi riemerso come espressione primaria di un regime più globalizzato e flessibile di accumulazione capitalistica (Reed 1996).
Arrivati alla fine degli anni Novanta, il guru del management Tom Peters incoraggiava i lettori di “Fast Company” a pensare se stessi come “CEO di Me, Inc.”. Poco dopo, la rivista “Wired”, libri come Free Agent Nation. The Future of Working For Yourself (Daniel H. Pink, 2001) e consigli pubblicati su Internet celebrano la precarietà come flessibilità del libero professionista. Il messaggio generale di questi testi era quello di abbracciare l’incertezza e di cogliere l’opportunità di (ri)scrivere la propria carriera.“Si tratta di realizzazione. Si tratta di libertà. Si tratta del tuo tempo”, recita il retro di copertina di Free Agent Nation per incoraggiare i lettori a seguire l’esempio delle nuove icone, quei “pionieri del XXI secolo” che costruiscono vite più ricche in termini di senso e di introiti. Anche se al posto di ‘vite’, bisognerebbe ricordarsi di leggere ‘professioni’. Ma è proprio l’assimilazione dei due termini a dettare l’approccio: non si tratta più solo di lavoro ma di vita. Il lavoro è vita, la vita è lavoro – lavoro nel senso più aggressivo del termine. O meglio, tra le due dimensioni non esiste più un confine, sicché la vita è assoggettata alla concorrenza. Questa manageriale ‘chiamata alle armi’ di nuovi lavoratori-imprenditori di se stessi è oltretutto rivolta con enfasi a donne e a pensionati. Secondo Pink, le “mompreneurs” possono finalmente conquistarsi il riconoscimento che si meritano (secondo la sua acuta logica, basta mettersi in proprio per aggirare il maschilismo sul posto di lavoro) e chi è andato in pensione può rifiorire dando vita a una nuova, entusiasmante impresa manageriale. Nel frattempo l’affacciarsi sulla scena di Facebook, Linkedin, Twitter e Instagram, ha semplicemente fornito al lavoratore i mezzi comunicativi per l’auto-espressione strategica all’interno dell’economia della reputazione guidata dalla misurazione, dove il successo è quantificabile in likes e visualizzazioni e si traduce in offerte di collaborazioni lavorative o richieste di servizi. In questo sistema, i lavoratori di tutti i settori sono stimolati a gestire lo spazio dei social network come fosse suolo pubblico, sul quale proporre contenuti ‘intimi’ che esprimano il loro ‘autentico’ brand personale. Come sosteneva Mark Fisher:
“Nel corso di più di trent’anni il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di ‘ontologia imprenditoriale’ per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda.” (2009, p. 51)
Compresa l’identità. L’enfasi contemporanea sulla narrazione personale, sulle competenze relazionali e sull’intimità delle persone, plasma quindi nuove forme di lavoro “immateriale” e “affettivo” (Hardt e Negri, 2009), che richiedono capitale culturale e competenze che non sono affatto possedute da tutti. Quella retorica liberale di fine Ottocento, che si rivolgeva agli uomini creati tutti uguali e dotati di eguali potenzialità, una visione che ancora smielatamente informa l’attuale retorica del self-branding, stride acutamente con opposti dati di fatto. Le disuguaglianze tra gli uomini nella società tardo capitalista sono strutturali e riguardano ancora differenze economiche, geografiche, di genere e di accesso a quegli strumenti considerati necessari a ‘mettersi in proprio’. Le strategie di self-branding sono confezionate per chi i mezzi già li ha e, coerentemente con la mentalità imprenditoriale, il problema di quanti i mezzi non li possiedono e soprattutto perché non li possiedano, di certo non le riguarda.Scompensi psicologici
L’emergere di un ‘soggetto prestazionale’ con i suoi lati oscuri è quanto hanno descritto benissimo Federico Chicchi e Anna Simone in La società della prestazione (2017). Il modello di umanità neoliberista si basa sulla stessa responsabilità dell’iniziativa personale già presente nella retorica motivazionale di fine Ottocento. Con la differenza che se allora si era anche agli esordi dell’espansione di dottrine politiche sociali, oggi invece l’individuo è rimasto completamente solo nell’impresa, mentre per guadagnarsi un reddito sembra che non possa prescindere dal costruirsi e mantenere una certa reputazione digitale. Così i Daniel Blake della società, quell’operaio sessantenne non digitalizzato protagonista dell’omonimo film di Ken Loach (2016), restano esclusi da un sistema che vuole tutti smart e su di giri, in un modo o nell’altro obbligati al culto della prestazione sociale. Lettere motivazionali e portfolio delle competenze, meglio se confezionati con accattivante design, sono il perfetto esempio del capitale umano, relazionale e sociale richiesto a ciascuno come necessario biglietto d’ingresso nel cosiddetto ‘mondo del lavoro’. Nella fusione di lavoro e vita, ognuno è chiamato a spogliarsi della propria identità sociale in nome di una autenticità costruita seguendo i consigli dei manuali: l’unica autenticità ammessa è quella omologata e spendibile sul mercato.
Soggetti sempre più instabili e separati gli uni dagli altri, gli ‘aspiranti’ lavoratori contemporanei sono oggetto di costanti valutazioni selettive, in quello che Rosalind Gill (2010) ha definito un ‘never-ending pitch’ (campo da gioco, sfida, provino) e le enormi pressioni interne, unite all’insufficiente rete sociale di sostegno, rischiano di portarli al collasso per implosione. Nel 2009 Mark Fisher sosteneva la necessità di politicizzare i disordini mentali, soprattutto quelli considerati più comuni, come sindromi depressive, diffusi stati d’ansia, stress e angoscia. Invece di accettare la generalizzata privatizzazione dello stress, facendo ricadere interamente sugli individui la responsabilità dei loro problemi psicologici, Fisher ci ricorda che dovremmo piuttosto leggere l’impennata di tali disturbi come l’evidenza che “il capitalismo sia innatamente disfunzionale” (2009, p. 56). L’epidemia di stress emotivo denunciata da Oliver James nel 2009 in The Selfish Capitalist è l’altro lato della medaglia della società ultraliberista, in cui al posto di ricchezza e benessere per tutti non rimangono che ansia, frustrazione e lavoro precario.
La cultura del self-branding ha sostenuto la diffusione di un modello ideale di lavoratore, tratteggiato come “un aggressivo libero professionista, ricco di risorse, inventiva e creatività, in grado di muoversi agilmente in un mercato del lavoro fluttuante, pronto a cogliere qualsiasi opportunità di lavoro, ad auto-motivarsi e auto-promuoversi” senza sosta (Lair e altri, 2005). Questa tipologia di lavoratore è diventata anche sinonimo di uno stile di vita, al quale dovrebbe ambire la persona integrata e normale. ‘Flessibilità’, ‘nomadismo’ e ‘spontaneità’ non sono affatto un problema in sé ma lo diventano se interpretati come i valori rigidi di una forma di vita orientata unicamente al mercato. Se introiettato come unica possibilità esistenziale, il modello del lavoratore flessibile e aggressivo può divenire il riferimento per uno sfiancante confronto interno, uno specchio nero nel cui riflesso non tutti riescono a identificarsi placidamente. Il costante paragonarsi e scoprirsi insufficienti rispetto al modello ideale, cioè all’immaginario esistenziale collettivo, genera un ricircolo di frustrazione che trova sfogo nell’aggressività rivolta verso l’esterno (competizione con gli altri) o verso l’interno (autosvalutazione).
Già nel 1998 il sociologo francese Alain Ehrenberg aveva intuito la correlazione tra depressione e società contemporanea, sottolineando come dalla metà degli anni Ottanta la medicina del lavoro e le ricerche sociologiche registrassero il costante aumento di ansia, disturbi psicosomatici e depressioni. Sebbene il credo della società neoliberista voglia che ognuno parta alla conquista di se stesso, tuttavia l’ideale di un soggetto pieno, privo di crepe interne, che accresce il suo ‘potenziale umano’, riposa su una visione deficitaria dell’individuo, cioè sempre mancante rispetto a una norma. L’ipotesi avanzata da Ehrenberg è che la depressione sia la patologia di una società in cui la norma si fonda sulla responsabilità e l’iniziativa, intese esclusivamente in termini economici. Lacerato tra il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di ‘diventare se stessi’, del quale viene offerto un tracciato sul modello manageriale, l’individuo contemporaneo si confronta con una patologia dell’insufficienza, finendo per viverla come colpa privata. L’apparente assenza di obblighi e confini, unita alla pressante richiesta di mostrare ambizione, lo mette in crisi. Egli non sa cosa scegliere, perché sente di doversi assumere la responsabilità di “scegliere tutto e decidere tutto”. Il peso del possibile paralizza la volontà, degenerando in sindromi depressive che esprimono l’impossibilità stessa del vivere. A scontare il peso del mito della sovranità individuale è quindi il corpo del depresso, che si dibatte tra tristezza, inibizione e rallentamento psicomotorio, vivendo in un tempo senza futuro. “L’iniziativa individuale appare, all’individuo, una condizione indispensabile per continuare a vivere nel sociale. L’inibizione e l’impulsività, il vuoto dell’apatia e il recupero a base di stimolanti lo seguono come un’ombra.” (Ehrenberg 1998, p. 312). L’ossessione dell’auto-realizzazione esistenziale solleva dubbi circa una presunta ‘vera identità’ da cercare e conquistare. L’imperativo contemporaneo tradisce però l’illusione soggettivista da cui parte: quella convinzione, cioè, che l’individuo sia l’origine dei suoi desideri, l’artefice del proprio destino, nonostante le cause remote di ciò che desidera gli restino opache. La retorica dell’individualismo pratica spesso la rimozione, rifiutando l’ipotesi che l’individuo sia meno potente di quanto gli piaccia credere:
“L’ordine fortuito degli incontri e le leggi della vita affettiva attraverso i quali questi incontri […] producono i loro effetti fanno dell’uomo un automa passionale. Evidentemente, tutto il pensiero individualista-soggettivista, costruito intorno all’idea della volontà libera come controllo sovrano di sé, rifiuta in toto e con tutte le forze tale verdetto di radicale eteronomia.” (Lordon, 2015, p. 32)
Presa come metafora, la depressione in quanto patologia della libertà e dell’azione, dimostra quanto caro sia il prezzo da pagare per l’illusione di onnipotenza. In assenza di una vocazione personale alla quale aderire senza riserve, l’individuo si consuma in una ricerca potenzialmente infinita. La promessa dell’auto-realizzazione viene costantemente tradita, poiché sebbene sia facile proclamare che tutti abbiano il diritto di seguire la propria vocazione, nessuno può dire ad un altro in cosa essa consista. A ciascuno spetta il compito di progettare la sua vita. L’individuo scopre allora che all’alleggerirsi dei vincoli esterni non corrisponde affatto una ‘ritrovata’ sovranità individuale, quanto piuttosto un aumento di pesi da scontare nella dimensione privata. L’anelito ad essere se stessi si è trasformato nella “fatica di essere se stessi” e la retorica del successo riposa sulla chimera della conquista.Note
- First Choice and Martin Kemp turn little girl’s holiday film into a movie masterpiece, Youtube, 2017: youtube.com/watch?v=gvDm1uczXi…
- Brano originale: “[If they] stay unemployed, it is because they failed to learn the skills of gaining an interview, or because they did not try hard enough to find a job or because they are, purely and simply, work-shy; if they are not sure about their career prospects and agonize about their future, it is because they are not good enough at winning friends and influencing people and failed to learn and master, as they should have done, the arts of self-expression and impressing the other.” (Duffy e Pooley, 2019, p. 42)
- D. D’Addario, Tyler Oakley on how he became a social-media star: It’s not in my interest to change who I am, “Time”, 58, 2015
- “Your personal brand should follow you everywhere you go. It needs to be an authentic manifestation of who you are and amplify what you believe.” G. Chan, 10 Golden Rules of Personal Branding, Forbes.com, 2018 forbes.com/sites/goldiechan/20…
- “Every human being has a great mission to perform, noble faculties to cultivate, a vast destiny to accomplish. He should have the means of education, and of exerting freely all the powers of his godlike nature.” (cit. in A. Smiles, Samuel Smiles and His Surroundings, 1956)
- “The golden opportunity you are seeking is in yourself. It is not in your environment; it is not in luck or chance, or the help of others; it is in yourself alone.” brainyquote.com/quotes/orison_…
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